Un fantasma si aggira per l’Italia, ed è l’industria dell’auto. Scivolata, o meglio relegata, sullo sfondo della crisi economica – pandemica che vede protagonisti altri settori, quella che era, e in buona parte resta, l’industria principale del nostro paese non riesce più ad attirare l’attenzione. Ne sanno qualcosa i sindacati dei metalmeccanici, che da un paio d’anni, quindi ben prima della crisi Covid, diffondono comunicati e dossier per chiedere l’apertura di un tavolo di confronto col Governo. O sarebbe meglio dire con i governi: la catasta dei comunicati, messi uno sull’altro, rappresenta ormai un enorme plico regolarmente ignorato dai vari ministri dello sviluppo economico che si sono avvicendati nei diversi governi: da Di Maio a Patuanelli, cioè governi Conte Uno e Due (ma, aggiungono alla Fiom, “pure con Calenda e Gentiloni le cose non erano diverse”). Ora si spera (flebilmente) in Giorgetti e nel governo Draghi, ma intanto, proprio oggi, i sindacati protestano sotto il Mise per chiedere una convocazione.
Eppure, il settore auto rappresenta quasi un milione e mezzo di lavoratori, tra diretti e indotto, ed è trainante per molti altri comparti industriali, dalla siderurgia alla chimica all’elettronica, all’informatica. E neppure si può dire che sia un settore statico: in questi due anni l’automotive è stata al centro di rivoluzioni vere e proprie: la fusione Psa-Fca, la nascita di Stellantis, la vendita di Magneti Marelli, per dire. E più a largo raggio: la rivoluzione tecnologica, l’avvento dell’auto elettrica, la discussione globale sulla mobilità sostenibile, eccetera. Tutti temi sui quali qualunque governo avrebbe il diritto, o piuttosto il dovere, di svolgere un qualche ruolo. Anche solo per chiedere, per informarsi. Invece no. Silenzio.
La sola presa di posizione governativa che si ricordi è stata la concessione della garanzia Sace sul prestito da tre miliardi a Fca, epoca governo Gentiloni. In quella occasione, per tacitare le polemiche, giuste o ingiuste che fossero, l’allora premier precisò che si trattava di “una grande operazione di politica industriale”. Dopodiché, il silenzio. Interrotto solo da una scarna dichiarazione del ministro Patuanelli, epoca governo Conte Due, che a proposito della fusione Fca-Psa aveva sostenuto che il governo sarebbe rimasto alla finestra, per non interferire con un mercato che, come è noto, si autoregola. “Una posizione imbarazzante, quella dei governi italiani: stanno alla finestra mentre il mondo cambia”, commentano i sindacati.
Lo scorso anno i sindacalisti hanno organizzato un vero e proprio giro delle sette chiese della politica, incontrando i gruppi parlamentari di tutti i partiti per sensibilizzarli sul tema auto, chiedendo loro di sostenere l’avvio di un tavolo di confronto. ”Tutti ci hanno ascoltato con attenzione, tante belle parole e aperture, ma in concreto nulla, zero”, spiega Simone Marinelli, coordinatore dell’automotive per la Fiom. Come mai? una spiegazione tradizionale è nella sudditanza che la politica ha sempre avuto verso la Fiat, ma si teme che oggi ci sia qualcosa di peggio: sottovalutazione, forse, o forse incompetenza. “La verità è che come paese stiamo perdendo la vocazione industriale, e l’indifferenza nei confronti del settore auto ne è la prova. Un settore dove l’Italia ha sempre portato innovazione, e che ora, invece, ci vede a ricasco di altri paesi”, dice ancora Marinelli.
Incredibile a dirsi, sono migliori i rapporti con l’azienda. Nel 2020 c’è stato un approccio diverso di Fca verso i sindacati, iniziato col protocollo salute. E il paradosso, attualmente, è che è più facile parlare con l’amministratore delegato di un gruppo globale che con un sottosegretario. Carlos Tavares, infatti, ha incontrato i sindacati subito dopo la sua nomina, tutti assieme, compresa la Fiom: fatto politicamente rilevante, visto che da anni era stata sempre ricevuta separatamente da Fim e Uilm. Stessa modalità unitaria anche quando il Ceo di Stellantis ha visitato alcuni stabilimenti. Un segnale in controtendenza rispetto alla tempestosa epoca Marchionne. E sempre Stellantis ha già annunciato che incontrerà nuovamente i sindacati: incontro richiesto il 5 marzo, e subito fissato per il 15 aprile a Torino. Un appuntamento, spiega Ferdinando Uliano, segretario della Fim Cisl, “che servirà a fare un confronto puntuale su tutti gli stabilimenti italiani, per capire quali sono le reali strategie dell’azienda per il nostro paese”. Il governo, invece, come al solito tace.
Si potrebbe osservare che, effettivamente, il settore automotive, pur colpito pesantemente dalla pandemia nelle vendite, non è tuttavia in condizioni di crisi conclamata, come lo sono invece altre realtà industriali. Ma, ribattono i sindacati, seppure non sull’orlo del baratro, non mancano segnali, qualche scricchiolio sinistro, che vanno presi sul serio. Ancora Uliano ricorda che il mercato europeo, del resto, è in pessime condizioni per quanto riguarda le immatricolazioni, con un calo del 23% nei primi due mesi di quest’anno. Non c’è una emergenza di perdita di posti di lavoro, al momento, ma ovviamente si teme quello che può accadere alla fine del blocco dei licenziamenti. Nel frattempo sta aumentando il ricorso alla Cig nei vari stabilimenti, spiega Uliano. Per questo è stato chiesto l’incontro a Stellantis: ”per fugare possibili ansie e dare certezze ai lavoratori di quello che, ormai, è il quarto gruppo automobilistico mondiale, con 180 miliardi di fatturato e obiettivi di crescita, alla nascita, molto ambiziosi”.
Già, gli obiettivi di crescita, appunto. Tavares aveva fin dall’inizio garantito che gli stabilimenti e i lavoratori italiani non sarebbero stati toccati. E tuttavia, osservano alla Uilm, è chiaro che qualsiasi fusione presenta, oltre alle opportunità, anche rischi, per la naturale tendenza a sviluppare singergie ed eliminare sovrapposizioni”. Per esempio, non sfugge a che i costi degli stabilimenti italiani sono superiori a quelli francesi. “Il motivo è semplice, spiegano alla Fiom, in Italia abbiamo una capacità produttiva di circa un milione e mezzo di auto, ma viene usata meno della metà. Per cui i costi, certo, sono più alti. Noi diciamo: allora portateci altri modelli, in modo da marciare a pieno regime. Ma non se ne vedono”. E questo fa temere che si riducano gli stabilimenti. Magari non chiudendoli bruscamente, ma portandoli, in qualche modo, a spegnersi per esaurimento.
Mirafiori, per dire, è un grosso problema: la Cig regna sovrana da ormai dieci anni, e la nuova 500 elettrica non basta a saturare lo stabilimento, tanto più che con la pandemia le vendite sono molto rallentate. Pomigliano si trova in una situazione positiva, ha la Panda che va forte e tra poco arriverà anche il Tonale. Cassino, al contrario, con l’Alfa Romeo sta vivendo un periodo molto critico. Così come Maserati, che non ha modelli nuovi. La Sevel va benissimo con il Ducato, e bene anche la Iveco di Brescia, che punta sull’elettrificazione dei mezzi pesanti. Melfi, invece, ha avuto un forte investimento sull’ibrido, aveva fatto il salto tecnologico: ma anche qui c’è molta cassa integrazione. Proprio a Melfi è iniziata la campagna dei tagli ai costi dei servizi, come le pulizie, la mensa. Dunque non costi industriali, non ancora, “ma iniziano a circolare voci anche su questo”, osservano i sindacati. Ci sarebbero voci, non confermate da Stellantis, “di un intervento su una linea di produzione – spiega Uliano – inoltre preoccupa la mancata partenza della terza squadra sulle produzioni ibride Renegade e Compass, col conseguente rinvio della ripresa della piena attività per 1500 lavoratori”. Ma ci sono altri temi generali. C’è l’età media degli stabilimenti, 47 anni, la più alta d’Europa. Ci sono le vecchie situazioni incancrenite, come la Blutech di Termini Imerese, che rischia di non trovare nemmeno stavolta una soluzione, e con gli ammortizzatori sociali ormai in scadenza. Poi c’è tutta la questione dell’indotto, della catena di forniture, dove le aziende italiane sono in competizione con il sistema Psa.
Con l’azienda il confronto c’è, ma non basta. Il futuro è pieno di novità che sono anche altrettante incognite. La transizione tecnologica dell’auto, per dire, pure comporterà problemi. Uno studio della IgMetall, il potente sindacato tedesco dei metalmeccanici, ha dimostrato che un’auto elettrica ha un terzo delle componenti in meno rispetto a un’auto tradizionale. E realizzare un motore diesel ”occupa” 10 persone, mentre uno elettrico tra 6 e 7. Bene la mobilita sostenibile, dunque, ma deve essere sostenibile anche socialmente, dicono i sindacati. “Per questo stiamo chiedendo un tavolo di settore: non vogliamo arrivare al Mise per risolvere le crisi, vogliamo arrivarci per prevenirle ed evitarle”, spiega Simone Marinelli. “Il fatto è che oggi servono imponenti investimenti, in tecnologie, in ricerca e sviluppo. Siamo indietro sulle batterie, sull’elettrico, abbiamo bisogno di professioni e competenze nuove. E’ vero che come settore non siamo stati drammaticamente colpiti dal Covid come altri, ma è anche vero che la crisi sistemica dell’auto da noi c’era anche prima. Francia, Germania e Spagna sono intervenute per proteggere la loro industria, mentre in Italia non si è fatto nulla”. Soprattutto, oggi c’è, più che mai, un gran bisogno di politica industriale. Nell’auto come in ogni settore. E questa sono i governi a doverla fare.
Nunzia Penelope