Il dottor Hermann Pfannmüller era un medico nazista, esperto di eutanasia. Diceva: “E’ per me insopportabile l’idea che il fiore della nostra gioventù debba perdere la vita al fronte per garantire che i malati di mente e gli elementi asociali possano trascorrere in manicomio un’esistenza sicura”. Lo storico inglese Martin Gilbert ricorda che Hitler, mentre invadeva la Polonia, lanciò il piano per l’eliminazione dei più deboli.
Con l’operazione “T4”, dall’indirizzo di Berlino, Tiergartenstrasse numero 4, dove aveva sede la centrale operativa, partiva la caccia ai presunti pazzi, compresi neonati o bambini con qualche handicap, per dare loro “una morte pietosa”. Le vittime di questa caccia agli “anormali” furono decine di migliaia. Un capitolo, forse il meno conosciuto, della “soluzione finale”. Poi toccò agli ebrei, agli zingari, ai comunisti, agli oppositori di ogni specie.
L’altro giorno, su Repubblica, Timothy Garton Ash, commentando il linguaggio della nuova destra, ha ammonito: “Ogni volta che sentite pronunciare la parola normale ricordate che la lotta per il futuro della democrazia liberale è anche una battaglia sulla definizione di normalità”.
Victor Klemperer, filologo tedesco, è l’autore di “LTI, lingua terzii imperii, lingua del terzo Reich”, sorta di meticoloso taccuino nel quale annotò giorno per giorno come il Fuhrer e i suoi scherani, ancora prima di conquistare il potere, occuparono la lingua, stravolgendola e dando nuovi significati ai vecchi lemmi. Il suo diario (edito in Italia da Giuntina) fu ammesso come materiale di prova contro “le bestie della Gestapo”. Nella prefazione, cita come esempio il concetto di eroismo, usato in modo falso, distorto, bellicista, millantatore, vanaglorioso, gladiatorio.
Una violenza semantica, un veleno, piccole dosi ogni giorno, fino alla putrefazione delle menti. Nazione, Popolo, Onore, Lealtà, Razza assumevano un valore mitologico, sacro, inviolabile. Totem concettuali davanti ai quali sacrificare la coscienza individuale. Persino l’uso ossessivo delle maiuscole aveva un effetto roboante e imperativo.
Annalisa Camilli, dalle colonne di “L’Essenziale”, annota: “Naufraghi, migranti, fragili, carico residuale, sbarchi selettivi. Ancora una volta la guerra agli stranieri è anche una battaglia linguistica. Le parole fanno il mondo e in una guerra si deve alimentare l’odio attraverso il linguaggio e la costruzione di un nemico”.
Paola Di Lazzaro e Giordana Pallone, nel libro “Come è successo”, anticipato da “L’Espresso”, sostengono che “intorno a parole come inciucio, ribaltone, poltrone, casta, fannulloni” si è strutturata “una neolingua”. Non siamo di fronte solo a “grossolana volgarità e artificioso turpiloquio” ma al tentativo di minare le basi della tolleranza, della convivenza, della partecipazione pubblica, del dissenso e della democrazia rappresentativa.
Anche l’epiteto di “traditore della Patria” sta trovando nuova linfa. L’artificiosa costruzione di una presunta “normalità, con al centro il feticistico culto della famiglia tradizionale (ecco la proposta leghista di un premio per chi si sposa in Chiesa) esclude e condanna tutto ciò che è esterno giudicandolo immorale, pericoloso, diverso, contagioso. Domenico Starnone, su “Internazionale”, prevede che le 24 statue bronzee ritrovate a San Casciano, di fronte allo stato attuale dell’Italia e del mondo, “potrebbero chiedere di tornare subito nel fango”.
Anderson Lee Aldrich, baldo giovanotto di Colorado Spring, ha ucciso cinque persone, 25 i feriti, assaltando un locale frequentato da gay.
“Vite non degne di essere vissute”, teorizzava il dottor Pfannmuller. Inventore di una “dieta speciale” che portava ad una lenta morte, una volta si vantò di avere sottratto “una fetta di pane ad un’infermiera che voleva darla ad un paziente”. Catturato dopo la sconfitta della Germania, fu condannato a sei anni di carcere, poi ridotti a cinque. È morto tranquillo, a casa propria, nell’aprile del 1961. Non risulta che si sia mai pentito.
Marco Cianca