Non ce lo avevano detto, ma le elezioni europee hanno un doppio turno, una sorta di ballottaggio. Il secondo turno è a inizio luglio, in Francia, dove Macron, pesantemente sconfitto in casa dal duo Le Pen-Bardella, ha convocato a sorpresa elezioni anticipate del Parlamento. Il risultato di quel voto è lo spartiacque decisivo dell’Europa dei prossimi anni, più delle elezioni europee appena celebrate.
Il calcolo di Macron è abbastanza scoperto. Spera di suscitare quella “solidarietà repubblicana” che già più di una volta ha tenuto i lepenisti lontani dal potere, compattando tutti gli altri partiti democratici contro i populisti. E’ una delle magie del sistema di voto a doppio turno, con la scelta fra soli due candidati al secondo giro. Il rischio è alto, ma può funzionare (anche in Italia, per chi se lo ricorda, c’era una volta il richiamo all’”arco costituzionale”, che escludeva il Msi). Con la consueta spilorceria dell’economista – abituato a pesare in quantità danni e benefici – Olivier Blanchard ha subito osservato che, in ogni caso, la scommessa vale la pena. Se la Le Pen perde, esce di scena e non se ne parla più. Se vince, va al governo, combina, secondo Blanchard, disastri per due anni e viene cacciata – lei o il delfino Bardella – a furor di popolo alle prossime presidenziali 2027 che, altrimenti, restando oggi all’opposizione, avrebbe vinto: due anni persi, ma cinque (quelli dopo il 2027) risparmiati.
Ammesso che funzioni per la Francia, la conta al risparmio di Blanchard non vale, tuttavia, per l’Europa, dove una vittoria di Marine Le Pen – anche di breve respiro – dinamiterebbe, una volta per tutte, equilibri storici.
Nonostante il grande chiasso sull’ascesa della destra, il voto di questi giorni, infatti, cambia assai poco le prospettive istituzionali d’Europa. Fra veti e tentazioni, infatti, è molto difficile che non si torni all’asse che, da decenni, regge la politica europea: i numeri indicano, ancora una volta, l’alleanza fra popolari e socialisti, allargata ai liberali e, forse, ai verdi. In sostanza, tutte le forze europeiste di sempre. La Meloni otterrà, probabilmente, in cambio di un atteggiamento conciliante, un posto di prestigio in Commissione per l’Italia, ma un salto della quaglia sulle alleanze nel Parlamento di Strasburgo non ha lo spazio materiale per affermarsi.
Il personale al timone, in altre parole, non cambia. Ma questo non vuol dire che la rotta resterà la stessa disegnata negli ultimi anni. Gli umori dell’elettorato registrati dall’ascesa della destra peseranno sulle scelte concrete che le istituzioni europee sono chiamate a compiere sulla transizione ecologica, sul commercio, sull’immigrazione, sul futuro dell’integrazione.
Ed è qui che entra in gioco il fattore Le Pen. La politica europea viaggia a tre cilindri. Due – Parlamento e Commissione – sono il risultato di un voto, sostanzialmente, stabile: da loro possiamo aspettarci un europeismo temperato dall’attenzione alle resistenze e alle insofferenze manifestate dagli elettori. Ma il terzo cilindro – da sempre il più importante – sta cambiando in profondità. Il Consiglio europeo, dove siedono i governi e a cui, sostanzialmente, spetta l’ultima parola sulle decisioni-chiave non è più lo stesso di due-tre anni fa. In nove governi su 27 , l’estrema destra, una volta al bando, è oggi o sarà presto direttamente rappresentata. L’aggiunta di un decimo – il governo francese – cambia l’intero panorama. Anche perchè la Francia, nei fatti, non ha mai contato e non conterà mai per uno. La politica europea, da sempre, passa per Parigi. Ancor più, nel momento in cui l’altro perno della politica europea, la Germania, ha solo un governo debole e precario.
C’è dell’ironia nel fatto che gli sviluppi politici cercati dai nazionalisti e populisti italocentrici, piuttosto che olandesocentrici o tedescocentrici abbiano consegnato, a loro e a noi, un mondo in cui il futuro si decide per tutti, inequivocabilmente, in elezioni lontane e fuori da qualsiasi possibile intervento: il voto dei contadini del Périgord o dei bottegai del Quartiere latino a luglio, quello dei colletti blu della Pennsylvania o degli informatici di Silicon Valley a novembre.
Biden o Trump? Macron o Le Pen? Ecco le partite decisive. In questa prospettiva, le elezioni europee hanno poco più del peso di un gigantesco sondaggio d’opinione. E il nostro piccolo campionato locale, forse, ancora meno. Storicamente, in Italia, le europee mandano segnali precari. Come il 33 per cento del sorpasso Pci sulla Dc nel 1984, smentito dal 26,5 per cento delle prime elezioni successive alla Camera. Il boom al 40 per cento del Pd 2014, dimezzato alle politiche del 2018. O il 35 per cento della Lega 2019, polverizzato all’8,79 per cento nelle politiche 2022. Forse, vincere le europee, in Italia, non porta neanche bene.
Maurizio Ricci