In queste note si analizzeranno alcune questioni di merito relative all’accordo aziendale Fiat per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco che giustificano l’attenzione che il sistema di relazioni industriali e l’opinione pubblica stanno prestando al conflitto innescato dalla firma di questo accordo. Occorre essere consapevoli che le relazioni industriali e la contrattazione collettiva attivano processi di produzione normativa sempre condizionati dal contesto (storico, politico, economico); così, dal un punto di vista dello studio delle relazioni industriali, la richiesta di Fiat di collegare l’investimento produttivo alla sottoscrizione di questo accordo aziendale è un fatto da prendere in considerazione per spiegare la dinamica negoziale. D’altronde è proprio l’accordo a fare riferimento esplicito «alla grave situazione di crisi economica» del settore automobilistico e, in particolare, dello stabilimento Fiat di Pomigliano. Non si può, dunque, negare il nesso fra crisi, investimento produttivo aziendale e le condizioni di lavoro che vengono richieste con questo accordo. Il punto dell’analisi che ci riguarda si sposta dal versante delle relazioni industriali a quello della legittimità giuridica dei contenuti dell’accordo. Solo in conclusione potremo solo accennare volgendo di nuovo lo sguardo alle relazioni industriali.
1. Questioni sull’organizzazione dei tempi di lavoro
Innanzitutto con sono questioni sull’organizzazione del lavoro il cui fulcro è rappresentato dalla disciplina dei tempi di lavoro.
L’accordo ha l’obiettivo di modificare sia le quantità di lavoro sia la qualità dei tempi.
Sotto il primo profilo, vi sono diverse modifiche alla disciplina del ccnl vigente in materia di orario e turnazioni, lavoro straordinario e tempi di non-lavoro quali pause, soste, riposi giornalieri, riposi compensativi, (il ccnl dei metalmeccanici del 2008 cui l’accordo “separato” del 2009 non ha apportato sostanziali modifiche). Inoltre, sotto il profilo della qualità dei tempi, si prevede una nuova disciplina della metrica del lavoro che è alla base delle modifiche in materia di collocazione temporale dei tempi di non-lavoro.
La connessione fra nuovo sistema metrico del lavoro e disciplina di tempi di lavoro e riposi è presentata come scelta necessaria a garantire un determinato tasso di produttività. Tralasciamo ogni giudizio sulla dottrina della produttività perseguita esclusivamente attraverso un approccio quantitativo (v. per tutti Costabile in Riv. Giur. Lav., 2009, n. 4); limitiamoci ad osservare che il miglioramento delle performance aziendali dello stabilimento di Pomigliano deve essere perseguito fondamentalmente attraverso un incremento delle ore di lavoro (i 18 turni), il ridimensionamento e la ricollocazione delle pause e delle soste, l’aumento delle ore di lavoro effettive rispetto a quelle complessivamente retribuite.
1.1. Orario e riposi
Nel punto 1 dell’accordo si prevede che gli impianti dovranno essere produttivi a ciclo continuo per 6 giorni la settimana, quindi su 18 turni. In sostituzione della settimana articolata su 5 giorni lavorativi, l’accordo prevede che la distribuzione dei giorni di lavoro di ciascun dipendente addetto al ciclo produttivo alterni una settimana di 6 giorni lavorativi ed una si 4. Ciò permette di avere settimane lavorative di 48 ore di lavoro normale, settimane di 40, altre di 32 e talvolta, anche di 24. L’accordo adotta questo schema di orario multiperiodale nell’ambito consentito dall’art. 3 del d. lgs. n. 66/2003 purché disciplinati dai contratti collettivi.
Il ccnl prevede la possibilità di adottare schemi di orario multiperiodale (art. 5, sez. IV, Titolo III) prevedendo il periodo temporale di riferimento del calcolo medio fino all’anno intero; al contempo, il CCNL prevede anche la possibilità che negli impianti in cui si renda necessario produrre ininterrottamente per 7 giorni alla settimana, la durata normale possa essere calcolata come media plurisettimanale col tetto settimanale massimo di 48 ore. Infine, benché il Contratto nazionale prevede che il sabato si possa lavorare non oltre le 13.00, la disposizione prevede anche che questo limite è «di massima»; insomma, nulla esclude che anche in base al ccnl si possa prevedere il sabato lavorativo, come previsto dall’Accordo di Pomigliano. Eppure, l’accordo Fiat si spinge oltre perché i 18 turni e l’orario plurisettimanale non sono l’unica misura ma richiedono anche un adeguamento della disciplina dei riposi sulla quale, per come è prevista dall’accordo Fiat, è lecito nutrire dubbi.
Cominciamo dalla disciplina di legge. L’art. 7 del d. lgs. n. 66/2003 impone l’obbligo di assicurare ai lavoratori un riposo consecutivo giornaliero di 11 ore ogni 24 da fruire in modo consecutivo e tale riposo si aggiunge al riposo settimanale pari a 24 ore consecutive, di regola coincidente con la domenica (art. 9, d. lgs. n. 66/2003). La multiperiodalità del riposo settimanale implica la possibilità di spostare la collocazione temporale delle 24 ore consecutive e così poter fruire di due giorni interi (anche non consecutivi) nell’arco di 14 giorni. L’art. 17, comma 1, d. lgs. n. 66/2003, infine, prevede che tale disciplina possa essere derogata mediante contratti collettivi.
L’accordo Fiat dichiara espressamente di derogare a queste norme soprattutto quando il riposo giornaliero e quello settimanale non vengono fruiti consecutivamente. Ciò accade, per esempio, quando i lavoratori terminano la settimana alle 22 del sabato – fine 2° turno – e iniziano alle 6.00 del lunedì – inizio 1° turno – oppure quando finiscono alle 14.00 del sabato – fine 1° turno – e formalmente iniziano alle 22.00 della domenica – inizio 3° turno. Diciamo formalmente perché questo 18esimo turno è anticipato alla notte fra domenica e lunedì e non viene effettivamente svolto poiché compensato con i p.a.r.
Ebbene, osservando gli allegati tecnici all’accordo, si vede chiaramente che il turno notturno fra sabato e domenica non viene svolto perché è considerato come permesso retribuito, utilizzando sia le 104 ore di p.a.r. sia alcune festività. Poiché il 18° turno coperto retributivamente con i p.a.r. è tecnicamente orario di lavoro convertito come riposo, ciò non costituisce diritto dei lavoratori a considerare quel turno (il 18esimo) come riposo, ben potendo l’azienda decidere di non concedere il p.a.r. Per questa ragione l’accordo Fiat deroga alla disciplina legale in quanto essa non riguarda le 24 ore di riposo settimanale ma le 11 ore di riposo giornaliero consecutive e aggiuntive alle 24.
La legge consente la deroga solo «a condizione che ai prestatori di lavoro siano accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per motivi oggettivi, a condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata». La necessità di bilanciamento è sancito dalla Corte di Giustizia che ha ribadito più volte la necessità che la deroga sia seguita tempestivamente dal riposo compensativo (per tutti sentenza Jaeger). Non è ben chiaro se l’accordo Fiat, invece, compensi la riduzione del riposo giornaliero e settimanale con i due giorni di riposo consecutivo da fruire a settimane alterne. Poiché, però, anche questi giorni di riposo sono potenzialmente utilizzabili per prestazioni di lavoro straordinario (come dirò appreso) è lecito dubitare della compatibilità con la finalità di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori cui è improntata la disciplina legale e comunitaria (cfr. Carabelli-Leccese in L’orario di lavoro. La normativa italiana di attuazione delle direttive comunitarie, a cura di Vito Leccese, Ipsoa, Milano, 2004).
1.2 La fonte contrattuale della deroga
Anche la fonte della deroga solleva dubbi. Vero è che la legge del 2003 non seleziona il contratto collettivo cui la legge attribuisce funzioni normative in deroga (art. 1, comma 2, lett. k), ma l’art. 17, comma 1 stabilisce che le deroghe possono essere disposte solo da «contratti collettivi stipulati al livello nazionale» e solo «in assenza di specifiche disposizioni nei contratti nazionali le deroghe possono essere stabilite nei contratti collettivi territoriali o aziendali». La questione riguarda il rapporto fra contratto nazionale e contratto aziendale. È la legge sull’orario di lavoro a prevedere un determinato assetto gerarchico-funzionale fra contratto nazionale ed aziendale, subordinando la deroga mediante contratto aziendale solo in caso di «assenza di specifiche disposizioni» del contratto nazionale. L’«assenza» di specifiche disposizioni si ha quando il ccnl manifesta l’inerzia degli agenti negoziali pur in presenza di un quadro legislativo mutato; come dire che se in presenza della nuova legge non vi è una manifestazione di volontà del contratto nazionale, quella volontà può manifestarsi al livello di territorio o di azienda.
Ma è lo stesso rinvio legale che tiene conto dell’assetto contrattuale tra funzione del ccnl e funzione del contratto aziendale. Benché la legge consenta al contratto aziendale di derogare la legge lo colloca nell’ambito di un sistema per il quale la deroga operata al livello aziendale non è in contrasto con la volontà collettiva sancita nel ccnl. In questo senso, le parti firmatarie del ccnl, rinnovandolo nel 2008 (e, senza la Fiom-Cgil, anche nel 2009), pur in presenza di un nuovo quadro legale, non hanno previsto deroghe né rinvii al livello aziendale. In questo caso, l’«assenza di specifiche disposizioni» non è imputabile ad inerzia ma alla volontà di non derogare la disposizione di legge. Dunque, la deroga prevista dal contratto Fiat opera in presenza di una volontà del contratto nazionale che non esprime favore alla deroga in materia di riposo giornaliero e, pertanto, potrebbe contrastare con l’art. 17, comma 1, decreto 66/2003.
1.3 Lavoro straordinario
Infine, in materia di lavoro straordinario, l’Accordo Fiat raddoppia le ore di straordinario annuo (passando da 40 a 80) che possono essere disposte unilateralmente dall’Azienda senza preventivo esame con la RSU. Peraltro, queste 80 ore possono essere disposte per coprire il 18° turno, già coperto da retribuzione dei p.a.r.; in altri termini, si prevede la possibilità di richiedere straordinario nei giorni destinati al permesso retribuito durante il 18esimo turno attribuendo ai lavoratori solo il diritto alla maggiorazione per straordinario. Con questa disposizione, le ore effettive di lavoro straordinario svolte durante le ore destinate a permesso vengono pagate normalmente come ore di lavoro straordinario, ma le corrispondenti ore di permesso retribuito non fruito sono commutate in lavoro effettivo (straordinario) e non più fruibili. In alternativa, si prevede che attraverso un accordo individuale, il lavoratore possa rinunciare alla suddetta maggiorazione per straordinario in cambio della maggiorazione come lavoro notturno. In questo caso, il lavoratore guadagnerebbe il diritto a conservare le ore di permesso retribuito con cui si copre il 18° turno.
Nelle pieghe dell’accordo si ambisce alla realizzazione di una tecnica di regolazione finora esclusa dal diritto del lavoro: si tratta della derogabilità individuale di diritti collettivi. Con questa clausola dell’accordo aziendale non solo si deroga al contratto nazionale, ma si consente al contratto individuale di derogare la clausola del contratto aziendale che già deroga il contratto nazionale: la rinuncia individuale al diritto alla maggiorazione retributive per lavoro straordinario.
Le maggiorazioni retributive per lavoro straordinario e notturno sono previste dalla legge (art. 2108 c.c. e art. 13, comma 2, d. lgs. n. 66/2003) prima ancora che dai contratti collettivi. Pertanto, la rinuncia riguarda un diritto previsto dalla legge la cui concreta determinazione è affidata alla contrattazione collettiva. Un siffatto accordo individuale costituisce rinuncia ad un diritto derivante da norme inderogabili di legge e di contratto collettivo e, come tale, impugnabile dinanzi al Giudice del Lavoro per violazione dell’art. 2113 c.c.
Su un altro versante, neanche la mezz’ora di sosta per la refezione collocata a fine turno è immune dalla conversione in lavoro straordinario poiché nell’ambito delle 200 ore annue pro-capite di straordinario, l’azienda potrà richiedere di effettuare lavoro straordinario nella mezz’ora di refezione, salvo informazione preventiva alle RSU. Vale la pena sottolineare che le 80 ore di straordinario unilaterale rientrano nelle 200 ore complessive; non è chiaro se tali 80 ore possono essere utilizzate anche per coprire la mezz’ora di refezione. In caso affermativo, collocare a fine turno la sosta refezione convertibile in lavoro effettivo straordinario appare un altro tassello nella potestà organizzativa di mutare il tempo del riposo in tempo del lavoro.
1.4. Recuperi produttivi
Questa relativizzazione dei tempi delle soste, dei permessi è emblematica nella disciplina dei recuperi di produzione. Sosta di fine turno per refezione o i giorni di riposo individuale (quindi sia quelli di permesso del 18° turno, sia i due giorni consecutivi a settimane alterne), potranno essere ordinati al lavoro in caso di «perdite della produzione non effettuata per causa di forza maggiore o a seguito di interruzione delle forniture». Peraltro, la conversione del tempo di riposo in tempo di lavoro dovrà avvenire «a regime ordinario», cioè senza qualificare le ore di recupero come lavoro straordinario.
Il Contratto nazionale disciplina i casi di sospensione ed interruzione del lavoro e la relativa disciplina dei recuperi (artt. 3 e 4, Titolo III, Sez. IV). L’accordo Fiat inasprisce questa disciplina privandola delle limitazioni previste dal Contratto nazionale, lasciando comunque irrisolto il problema relativo alla qualificazione giuridica del tempo come «orario» oppure no. Alla base della disciplina su recuperi e sospensioni sta l’idea che quando vi è una causa di forza maggiore le ore di permanenza sul lavoro senza esecuzione effettiva della mansione non possono essere qualificate come «orario di lavoro». Ciò potrebbe essere condivisibile nei casi di forza maggiore ipotizzando una sospensione del rapporto di lavoro; tuttavia, le cause esogene o le interruzioni di forniture costituiscono elementi patologici eppure possibili in un processo produttivo; diremmo che fanno parte del rischio dell’attività d’impresa. Allora la questione deve essere posta in altri termini: perché il tempo che un lavoratore mette alla completa disposizione dell’azienda, restando presente sul luogo di lavoro, non deve essere calcolato come orario di lavoro? Stabilire che le ore di lavoro improduttive devono essere recuperate, peraltro come ore normali, significa che le ore di presenza sul luogo di lavoro quando non sono produttive, anche dipendenti da cause estranee al lavoratore, sono imputate al lavoratore medesimo. Si tratta di inversione dell’imputazione del rischio: dall’impresa al lavoratore.
Nondimeno, mi sembra che anche la giurisprudenza nazionale e comunitaria in materia di nozione di orario di lavoro induca a sostenere che il tempo trascorso a disposizione dell’azienda, ancorché non produttivo per ragioni non dipendenti dal lavoratore, deve essere qualificato come orario di lavoro.
1.5. Assenteismo
Rientra, infine, nel quadro delle misure di incremento della produttività la disciplina contrattuale di contrasto al c.d. assenteismo. Si parla di «forme anomale di assenteismo» quando in presenza di «astensioni collettive dal lavoro» (perciò inclusi gli scioperi), «manifestazioni esterne», «messa in libertà per causa di forza maggiore o per mancanza di forniture», i lavoratori si assentino per malattia senza che ciò sia riconducibile a forme epidemiologiche. In tali casi, l’accordo prevede la non copertura retributiva per i primi tre giorni di malattia.
Cominciamo subito dal terzo esempio dicendo che non v’è ragione di sospettare che un lavoratore decida di assentarsi per malattia senza averne effettiva ragione quando vi è interruzione del lavoro per causa di forza maggiore dal momento che il Contratto nazionale prevede la normale retribuzione delle ore non-lavorate. Diverso è il discorso in caso di scioperi dato che all’astensione collettiva segue la perdita di retribuzione che, invece, con la malattia non si verifica.
Ad ogni modo, al di là di queste supposizioni, resta il problema della contrarietà della clausola con la corrispondente disciplina del contratto nazionale. La clausola dell’accordo Fiat, concepita e strutturata per colpire l’assenteismo, investe anche chi, durante gli eventi indicati sopra, si trovi in stato di malattia “effettiva”. Si comprende la prudenza che ha indotto all’ultimo momento le parti a istituire una Commissione paritetica aziendale «per esaminare i casi di particolare criticità a cui non applicare quanto sopra previsto». Ma ciò non risolve il problema (come invece sostiene Martone, Un accordo importante, ma di difficile attuazione, www.ildiariodellavoro.it, 6 luglio 2010, in questa Riv.) della efficacia e validità della clausola. È anche vero che questa clausola non contrasta con alcuna legge, ma solo col contratto collettivo e ciò non la rende di per sé illegittima (Ichino, Appunti di un giurista su Pomigliano, www.lavoce.info, 18.6.2010). Se però la clausola è finalizzata soltanto a colpire l’assenteismo da falsa malattia, non serve precisare che non la legge non obbliga a retribuire i primi tre giorni di malattia. In altre parole, se non si vuole mettere in discussione il diritto contrattuale al pagamento dei primi tre giorni di malattia, allora il problema è accertare che la malattia sia falsa.
Ebbene, poiché l’accordo Fiat non mette in discussione il diritto alla retribuzione dei primi tre giorni di malattia, allora è necessario che la clausola contrattuale sia riformulata per precisare la fattispecie sanzionata, configurando correttamente il comportamento illegittimo e la modalità di controllo dell’infrazione. L’azienda, dunque, dovrà provvedere a decurtare la retribuzione solo ai lavoratori che presentano un certificato medico non veritiero oppure a tutti gli ammalati durante gli eventi indicati? Nel primo caso, a chi spetta valutare l’autenticità della diagnosi medica? Nel secondo caso, l’infrazione dipende dalla concomitanza della malattia con gli eventi indicati: ciò discriminerebbe i lavoratori ammalati in concomitanza con alcuni eventi rispetto agli ammalati negli altri periodi (Mariucci, Note su un accordo singolare, www.lavoce.info, 21.6.2010).
2. Questioni sul diritto di sciopero
I punti 14 e 15 dell’accordo sono riferiti alla garanzia di rispetto dell’accordo. La clausola stabilisce che «il mancato rispetto degli impegni assunti… libera l’Azienda dagli obblighi derivanti dal presente accordo».
Si fa gravare sulle organizzazioni sindacali la responsabilità dell’efficace organizzazione del lavoro esigendo dai sindacati comportamenti che non ostacolino in alcun modo il regolare svolgimento della produzione. Nella clausola 14 la richiesta di esigibilità riguarda le relazioni sindacali aziendali; infatti questa clausola prevede che i «comportamenti idonei a rendere inesigibili le condizioni concordate… libera(no) l’Azienda dagli obblighi….» in materia di contributi sindacali e premessi. È una clausola paragonabile alle classiche clausole di pace sindacale con la previsione di una sanzione: il mancato riconoscimento di alcune prerogative sindacali previste dal contratto collettivo aziendale.
La sanzione in materia di contributi sindacali sarebbe illegittima dal momento che la giurisprudenza (da ultimo Cass., 7 agosto 2008, n. 21368) ha riconosciuto nell’obbligo aziendale di versare i contributi sindacali un obbligo derivante dalla cessione di credito del lavoratore a favore del sindacato. Inoltre, la sanzione sarebbe applicabile solo in caso di violazione dell’obbligo di pace o del c.d. dovere di influenza sui lavoratori eventualmente aderenti allo sciopero di un sindacato non firmatario (nel caso specifico, Fiom-Cgil). In altre parole, un conto è chiedere al sindacato di non promuovere azioni di conflitto per modificare l’accordo aziendale, altro è imputare al sindacato comportamenti dei lavoratori su cui l’influenza del sindacato nulla può. In tali casi non si potrà imputare ai sindacati alcuna sanzione di quelle indicate perché non dipendenti dalla volontà del sindacato.
La precisazione è dettata dall’ultimo alinea del punto 14 che allude proprio a questa condizione: infatti, anche i comportamenti individuali possono provocare la revoca di permessi sindacali aggiuntivi, ecc. Per quanto detto, questa clausola potrà eventualmente essere impugnata anche dai sindacati firmatari come clausola illecita perché antisindacale, benché al momento la cosa appare improbabile. Il risultato è che, di fronte ad uno sciopero spontaneo dei lavoratori di Pomigliano oppure proclamato da Fiom-Cgil, e nonostante gli sforzi dei sindacati di impedire che lo sciopero abbia luogo, questi potrebbero subire le conseguenze di questa clausola, salvo l’impugnazione giudiziaria.
2.1. La responsabilità contrattuale per sciopero
L’accordo prevede al punto 15 una clausola secondo la quale la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro è integrata dall’accordo aziendale. La clausola così posta appare del tutto inutile perché è evidente che un contratto collettivo aziendale integra la disciplina delle fonti di regolazione di un rapporto di lavoro e, pertanto, appare evidente che la violazione della nuova turnazione prevista si configura come inadempimento disciplinare sino anche alla sanzione del licenziamento. Non staremo qui a precisare che in ogni caso le violazioni di queste clausole normative possono giustificare il licenziamento solo se configurano una giusta causa o giustificato motivo di licenziamento; in ogni caso, così intesa la clausola è inutile.
La clausola non è inutile solo se teniamo derma l’inscindibilità delle clausole dell’accordo previste dal punto 14 e incorporiamo gli obblighi contrattuali, inclusi quelli previsti al suddetto punto 14, nel contratto individuale, soprattutto quando si sanzionano i «comportamenti idonei a rendere inesigibili le condizioni concordate». In altre parole, l’inscindibilità del contratto collettivo espressamente prevista dal punto 14 obbligherebbe a integrare il contratto individuale con la clausola che sanziona il comportamento che rende inesigibile l’organizzazione del lavoro, quindi anche lo sciopero. Insomma, se le clausole dell’accordo sono correlate e inscindibili significa che ogni lavoratore sarebbe obbligato ad osservare la turnazione ex punto 1 come sarebbe obbligato a non scioperare ex punto 14.
Questa seconda tesi sembra essere quella più verosimile avendo anche trovato sostegno tecnico-giuridico (Ichino, cit.). Si è detto, infatti, che la clausola sarebbe pienamente legittima perché uno sciopero proclamato in violazione di una clausola di pace sindacale sarebbe illegittimo e perciò l’adesione ad uno sciopero illegittimo da parte di un lavoratore sarebbe anch’essa viziata d’illegittimità. La questione è troppo complessa per poter essere anche solo accennata in questa sede; brevemente possiamo dire che questa tesi aderisce alla dottrina della titolarità sindacale del diritto di sciopero che in Italia non è prevalente né in dottrina né in giurisprudenza (Cass., 8 agosto 1987, n. 683; più di recente v. Trib. Milano, 28 luglio 2009; v. da ultimo Carinci, Il diritto di sciopero: la nouvelle vague all’assalto della titolarità individuale, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2009, p. 423) essendo più accreditata la dottrina che vede nello sciopero un «diritto individuale ad esercizio collettivo» (Giugni, Diritto sindacale, Cacucci, Bari, 2010).
Pertanto, qualunque conseguenza sanzionatoria imputata ai lavoratori a causa della partecipazione allo sciopero è illegittima; perciò la clausola dell’accordo Fiat deve essere interpretata nel senso che abbiamo qualificato essere inutile. Insomma, clausola inutile oppure illegittima.
3. Questioni sul sistema contrattuale
Solo qualche brevissima osservazione sulle questioni che questo accordo solleva rispetto al sistema contrattuale e di relazioni industriali. Cominciamo con la questione della deroga al CCNL del 2008. Di deroghe peggiorative ve ne sono diverse e molto rilevanti, come si è già visto: p.a.r., riposi, straordinario, copertura retributiva per malattia.
È vero (Ichino, cit.) che la quasi unanime giurisprudenza di Cassazione sostiene la legittimità di un accordo aziendale in deroga ad un contratto nazionale se ciò corrisponde alla volontà delle parti firmatarie (da ultimo v. Cass. n. 19351/2007). Tuttavia questa posizione ha il difetto di trascurare il sistema di relazioni industriali che – non a caso – è alle prese con un delicato conflitto interno sulla regolazione del rapporto fra livelli contrattuali. In altre parole, se bastasse la giurisprudenza di Cassazione a risolvere il problema del sistema contrattuale non ci sarebbe bisogno di attivare un delicato ed importante dibattito politico-sindacale sul sistema contrattuale (v. l’ampio dibattito sull’accordo quadro separato del 2009 di cui ampia traccia vi è in questa Rivista). Invece, le deroghe al contratto nazionale, ipotizzate nell’accordo quadro del 2009, sono collocate in un quadro minimo di regole e disciplina che al momento costituiscono l’impalcatura del sistema contrattuale, ancorché fragile e pericolante. L’accordo di Pomigliano rappresenta evidentemente uno strappo non solo al Contratto nazionale ma anche al sistema di regole dell’accordo quadro separato.
Sembra quasi che questo accordo manifesti insofferenza sia verso la politica sindacale di Confindustria sia verso quella di Federmeccanica. Infatti, per un verso, l’Accordo Interconfederale del 15 aprile 2009 prevede che «al fine di governare direttamente nel territorio situazioni di crisi aziendali o per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’area, i contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria possono consentire che in sede territoriale, fra le Associazioni industriali territoriali e le strutture territoriali delle organizzazioni sindacali stipulanti il contratto medesimo, siano raggiunte intese per modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi disciplinati dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria» (punto 5.1). Per altro verso, il ccnl dei metalmeccanici del 15 ottobre 2009, pur sottoscritto senza Fiom-Cgil, si limita a prevedere l’istituzione di una Commissione paritetica di analisi e proposta di deroghe sotto il governo del Contratto nazionale. In entrambi i casi le deroghe sono governate dal contratto nazionale.
L’accordo di Pomigliano è fuori anche da questo quadro di regole per il solo fatto di istituire deroghe fuori dal contratto nazionale e, quindi, dal sistema contrattuale rinnovato.
Ovviamente l’accordo aziendale Fiat ha il sostegno delle organizzazioni sindacali e d’impresa che hanno firmato il ccnl “separato” del 2009 e che, in tal modo, riconoscono ex post le deroghe qui operate. Tuttavia, il riconoscimento di deroghe non previste dal ccnl, dettato dalla ferma determinazione di Fiat che ne ha cooptato il consenso, rappresenta una smentita oggettiva delle cautele con cui il sistema di regole contrattuali ha inquadrato la derogabilità del contratto nazionale. Salvo che l’accordo non sia una “eccezione”, come taluni dicono o auspicano. Certo, può essere la rondine che non fa primavera; ma può anche essere la prima rondine di stagione.
di Vincenzo Bavaro – Università di Bari
Sannicandro di Bari, 7 luglio 2010