Non tutto è in crisi. Forse, in crisi è soprattutto il modello di sviluppo che ci accompagna da decenni e che sembra, ormai, aver finito la benzina. Il segnale arriva dai pochi punti di luce in questo buio anno dell’economia italiana. Luccicano da aree inaspettate e semisconosciute e suggeriscono un’Italia diversa, assai più simile alle economie dei paesi più avanzati dell’Occidente.
Si scopre così che c’è un settore che, da solo, ha prodotto, negli ultimi tre anni, appena meno di quelli che sono, da sempre, gli assi portanti della nostra industria. Auto e indotto, arredamento, abbigliamento, agroalimentare valgono, tutti insieme, 60 miliardi di euro di prodotto interno lordo, ogni anno. La neonata industria digitale ne vale, da sola, 54 miliardi, i nove decimi. Per avere un altro termine di paragone, 54 miliardi equivale quasi al 4 per cento del Pil nazionale.
Servizi web e mobile, commercio on line, software e Big Data, consulenza, social media, design web, produzioni multimediali e digital entertainment, finanza on line. E’ un universo che viaggia ormai verso le 200 mila aziende e un milione di addetti. Soprattutto è un arcipelago di aziende in continua espansione e che – finalmente – vede rosa: due su tre prevedono di espandersi ulteriormente quest’anno e il resto conta di mantenere almeno le posizioni. Dato che il grosso lavora nel b2b (business to business, cioè ha come clienti altre aziende, più che singoli consumatori), se la ripresa partisse, il settore metterebbe il turbo.
Secondo il censimento che ne ha fatto l’associazione di settore (Assintel), siamo di fronte ad una costellazione di piccole e medie aziende. L’impresa digitale ha, in media, 17 collaboratori e un fatturato di un milione di euro. Ma è un panorama viziato dalla trasformazione di aziende più consistenti, che vengono dall’informatica e dalle telecomunicazioni. Il 44 per cento delle imprese digitali è praticamente neonata e non arriva ancora a fatturare 100 mila euro l’anno. D’altra parte, è difficile anche individuarle. Se due terzi sono Srl (società a responsabilità limitata), la verità è che per lo più vengono formate e rinnovate ad ogni singola commessa.
Chi ci lavora? In tempi di disoccupazione giovanile rampante e di fuga dei cervelli, le migliori notizie sono proprio qui. Due terzi degli addetti hanno meno di 35 anni e altrettanti sono i laureati (quasi sempre maschi, purtroppo). Più di uno su dieci ha un master e quasi uno su tre ha fatto esperienze di lavoro all’estero. E’ la forza lavoro del futuro, che sembrava ormai arenata nella disoccupazione o nella pura e semplice inattività. Invece, 620 mila di loro hanno trovato un posto nell’industria digitale. Fermiamoci un attimo su questa cifra, perchè non è un numero qualunque: sono poco più di 600 mila, ormai, gli addetti della grande impresa manifatturiera italiana (quella con più di 500 dipendenti). Nella nuova Italia, c’è più gente che lavora sul web di quanta ne lavori in Fiat o in Finmeccanica. E mentre questi continuano a diminuire, i digitali sono aumentati, rispetto allo scoppio della crisi, nel 2009, di 75 mila.
Lavorano, come? I contratti a tempo indeterminato resistono solo nelle aziende più vecchie, quelle che sono trasmigrate sul web da un passato specificamente informatica-tlc. Nelle aziende già nate sul web, i contratti tradizionali sono appena un quarto. Un terzo del totale rientra fra gli atipici CoCoPro o partite Iva. Molte, per il resto, sono le aziende che registrano solo il titolare. Lavora da solo? No. Attorno alle 173 mila aziende del settore gravitano, secondo le stime Assintel, almeno altri 250 mila collaboratori. Il totale dell’occupazione complessiva, diretta e indiretta, sfiora, insomma, le 900 mila unità.
Maurizio Ricci