- C’è luce in fondo al tunnel?
La lunga stagione degli accordi separati è stata, peraltro, segnata da una doppia e rilevante crisi dell’economia. Anzitutto quella finanziaria internazionale conseguente al fallimento della Lehman Brothers (2008). Al suo primo apparire, il 22 gennaio del 2009 le parti sociali (ad esclusione della CGIL) e il Governo (ma solo in quanto datore di lavoro del pubblico impiego) si accordano su di una revisione del modello contrattuale definito dal protocollo del 1993. Sotto il profilo salariale, in particolare, l’accordo segna l’esplicito abbandono dell’inflazione programmata, ultima eredità della stagione della concertazione, in favore di un valore di aumento dei prezzi (indice IPCA depurato dei beni energetici importati) non più concordato trilateralmente, ma previsto invece da un ente tecnico terzo (prima l’ISAE poi, dopo l’assorbimento da parte del Ministero dell’Economia, l’ISTAT). Si introduce inoltre l’elemento di garanzia retributiva (egr), da corrispondere ai dipendenti delle aziende in cui non si esercita il livello contrattuale decentrato e che non percepiscono altri trattamenti, individuali o collettivi, oltre a quelli previsti dal contratto nazionale. Nonostante la crisi, questa nuova voce salariale riuscirà a favorire per qualche tempo (all’incirca nel sessennio contrattuale 2009-2014) il riallineamento della dinamica del reddito da lavoro dipendente con quella (comunque molto modesta) della produttività del lavoro. Ma nel periodo successivo le due grandezze tornano a divergere, e un qualche riallineamento potrà riproporsi soltanto quattro anni dopo, quando una nuova caduta della produttività marcherà la recessione tecnica del primo semestre 2018.
Nel corso della seconda crisi dell’economia italiana (la cosiddetta “crisi dello spread” del 2011-2012) la mancata adesione della CGIL all’accordo quadro del 2009 manifesta la sua dirompenza con riferimento alla percorribilità di entrambi i livelli di contrattazione, in particolare in relazione al problema delle possibili divergenze nella rappresentanza negoziale. La crisi si segnala soprattutto in FIAT, e più precisamente negli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori nei quali la FIOM, essendo minoritaria, avrebbe difficoltà a contrastare un contratto aziendale firmato dalle sole rappresentanze locali, mentre non avrebbe problemi a livello di categoria dei metalmeccanici. In questa situazione, che di lì a poco spingerà Marchionne a portare la FIAT fuori da Confindustria e ad abbandonare il contratto nazionale, il 13 giugno 2011 Luigi Angeletti, segretario generale della UIL, rilascia un’intervista al Sole 24 Ore nella quale annuncia la disdetta dell’accordo del 23 luglio 1993, con particolare riferimento alle RSU, le Rappresentanze sindacali unitarie da eleggere in tutti gli stabilimenti.
Secondo Angeletti il sistema delle RSU è superato dai fatti ed è invece necessario certificare gli iscritti ai sindacati in modo da dare finalmente attuazione all’articolo 39 della Costituzione, legittimando le organizzazioni rappresentative del 50% più uno dei lavoratori a concludere accordi validi erga omnes. Per attuare la Costituzione è sufficiente che le imprese, che raccolgono le trattenute sindacali in busta paga, comunichino all’INPS il numero degli aderenti alle diverse sigle, e l’INPS o il CNEL certifichino e rendano noti i dati. In questo modo i sindacati dei quali sia stata certificata la rappresentanza maggioritaria potranno stipulare contratti collettivi di lavoro, sia nazionali sia aziendali, “con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. La certificazione della rappresentanza anche a livello aziendale risolverebbe il contenzioso tra FIAT e FIOM senza bisogno di abbandonare Confindustria e il sistema contrattuale nazionale.
La proposta UIL di certificazione degli iscritti trova d’accordo tutti i sindacati, ma per la CGIL al conteggio degli iscritti va affiancato quello dei voti dei lavoratori espressi nelle elezioni delle RSU. In altri termini, come già avviene per legge nel pubblico impiego, la misura della rappresentanza dovrà tenere conto sia degli iscritti che dei voti. Il problema dell’accertamento della rappresentanza e della rappresentatività dei contraenti gli accordi collettivi, che certamente costituisce uno dei motivi (certo non l’unico) della scarsa diffusione della contrattazione decentrata, e della conseguente stagnazione del salario reale dei lavoratori italiani, trova quindi una prima sistemazione di principio nell’Accordo sindacale del 28 giugno 2011, cui seguiranno il Protocollo del 31 maggio 2013 e, infine, il Testo Unico sulla rappresentanza (Accordo Interconfederale tra CGIL CISL UIL e Confindustria del 10 gennaio 2014), che aggiorna l’Accordo sulle RSU del 20 dicembre 1993. Ma l’accordo di giugno 2011 non basterà ad evitare che il 30 settembre Sergio Marchionne, Amministratore Delegato della FIAT, invii a Emma Marcegaglia, Presidente di Confindustria, la lettera che preannuncia l’uscita dell’azienda da Confindustria a far data dal primo gennaio 2012.
Se a conclusione di quest’analisi è possibile indicare una prospettiva nella cui direzione tentare di risollevare la situazione indubbiamente difficile del sistema di relazioni industriali italiano, la direzione in cui muoversi è quella di organizzare nuovi e più efficaci momenti di concertazione sociale dello sviluppo. È infatti assai dubbio che il Paese possa dare una risposta adeguata di politica economica e sociale al declino e alle sfide attuali, trascurando la mobilitazione del patrimonio di consenso di relazioni unitarie e concertative tra le parti sociali e i diversi livelli di governo avviato ormai più di 40 anni fa. Quel patrimonio è stato recentemente ravvivato unitariamente dal Sindacato confederale con il documento del 25 gennaio 2016 sulla riforma del sistema di relazioni industriali per “uno sviluppo economico fondato sull’innovazione e la qualità del lavoro”, quindi con i conseguenti accordi conclusi con le varie associazioni padronali e il 9 marzo 2018 con il Patto della Fabbrica siglato con Confindustria, e infine con la Piattaforma unitaria “Le priorità di Cgil, Cisl e Uil per la Legge di bilancio 2019” presentato al Governo a ottobre del 2018. E a questo quadro vanno aggiunti gli accordi stipulati unitariamente con l’INPS e con il Ministero del Lavoro per la certificazione dell’effettiva rappresentatività negoziale dei troppi contratti collettivi estranei al sistema principale di relazioni industriali sottoscritti dopo l’uscita della FIAT da Confindustria.
Come abbiamo visto, quel rilevante patrimonio, sociale ed economico assieme, ha dato buona prova di sé fino a quando si è retto su obiettivi indubbiamente ardui ma chiari e condivisi – in particolare sul rientro dell’inflazione e sull’aggancio all’Europa, con l’entrata nel club dell’euro sin dalla prima chiamata. Purtroppo, ottenuti quegli straordinari risultati, non si è compresa per tempo la necessità di riformularne i termini in modo da renderlo funzionale a un nuovo e più ampio programma di sviluppo di lungo periodo. Oggi, piuttosto che disfarsene dichiarandolo superato o irrecuperabile (rinunciando così al consenso e alla coesione sociale che esso continua a suscitare), appare indispensabile riprenderlo, riplasmarlo e indirizzarlo a compiti nuovi e più ambiziosi, di definizione di un nuovo Patto sociale per incamminare il Paese lungo un sentiero di sviluppo sostenibile, inclusivo e partecipato – un Patto che espliciti le basi di consenso e coesione ad una fase di lotta alla stagnazione e riapertura delle porte del futuro, in Italia come in Europa. (Fine)
di Leonello Tronti (Università degli Studi Roma Tre)
Nota: Il testo qui pubblicato è parte di un lavoro che è stato pubblicato per intero in Aa. Vv. (2020), UIL 1950-2020. La nostra storia studiata, Arcadia Edizioni, Roma, pp. 137-150.