Vito Pinto – Ricercatore di Diritto del Lavoro all’Università di Bari
PARTE III
10. Il contratto di lavoro subordinato per prestazioni intermittenti.
Il contratto di lavoro intermittente è definito dal legislatore come “il contratto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa” allorché ne abbia bisogno (art. 33; contratto al quale può essere liberamente apposto un termine finale di efficacia). Il legislatore delega all’autonomia collettiva l’individuazione delle esigenze aziendali per soddisfare le quali è legittimo ricorrere a prestazioni di lavoro discontinue ed intermittenti, limitandosi ad ammettere direttamente la possibilità di stipulare questo contratto con “soggetti in stato di disoccupazione con meno di 25 anni di età” o con “lavoratori con più di 45 anni di età che siano stati espulsi dal ciclo produttivo e siano iscritti alle liste di mobilità e di collocamento” (art. 34, co. 2).
In questa tipologia negoziale, evidentemente, il profilo regolativo più significativo è quello relativo alla disponibilità del lavoratore ad effettuare la prestazione quando richiesta ed alla remunerazione di quella disponibilità.
Orbene, l’indennità di disponibilità, il cui ammontare sarà stabilito dal contratto collettivo e non potrà essere inferiore alla misura fissata con decreto del Ministro del lavoro (art. 36, co. 1), spetta soltanto al lavoratore che si obblighi a soddisfare la richiesta del datore di lavoro (art. 36, co. 6); e, poiché remunera specificamente quella disponibilità, non spetta nel caso in cui il lavoratore non lo sia anche solo temporaneamente e per causa a lui non imputabile (come nel caso di malattia: art. 36, co. 4).
Occorrerà stabilire, poi, se essa abbia o meno natura retributiva (non essendo sufficiente a definire la questione in senso affermativo l’assoggettamento a contribuzione sancito dall’art. 36, co. 2, dello schema); e, in caso affermativo, in che modo ad essa debbano essere applicati i principi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione sanciti dall’articolo 36 della Costituzione.
Lo schema di d. lgs., inoltre, prevede un’ipotesi particolare di lavoro intermittente caratterizzato dal fatto che il datore di lavoro può chiedere la prestazione soltanto in periodi predeterminati dalla legge (vale a dire nel fine settimana, durante le ferie estive, nonché durante le vacanze natalizie e pasquali) oppure dall’autonomia collettiva. In tal caso, il lavoratore sarà creditore dell’indennità di disponibilità soltanto se durante uno dei suddetti periodi la prestazione lavorativa gli sia effettivamente richiesta; mentre l’ammontare dell’indennità sarà coerentemente calcolato in ragione della durata del periodo in cui è effettuata la richiesta.
L’effetto vincolante per il lavoratore non deve essere sottovalutato, poiché anche in questo caso il rifiuto ingiustificato della prestazione “può comportare la risoluzione del contratto, la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo all’ingiustificato rifiuto [meglio: la non corresponsione di quella quota], nonché un congruo risarcimento del danno nella misura fissata dai contratti collettivi o, in mancanza, dal contratto di lavoro” (art. 36, co. 6).
Al di là di alcune questioni esegetiche anche di non poco momento (si pensi, ad esempio, alla difficoltà di determinare in via interpretativa l’arco temporale definito dallo schema in termini di “ferie estive”?), la disciplina da ultimo richiamata appare costituzionale illegittima quanto meno sotto il profilo del principio di uguaglianza e di ragionevolezza.
Il lavoratore che stipuli un contratto di lavoro intermittente per periodi predeterminati, infatti, nei limiti in cui sia tenuto a lavorare a richiesta del datore di lavoro, non potrà programmare in alcun modo il proprio tempo libero o di non lavoro (esattamente come in tutte le altre ipotesi di lavoro intermittente). Tuttavia, questa disponibilità potrà non essere remunerata se, come anticipato, in quel periodo il datore di lavoro non richieda alcuna prestazione lavorativa. La disponibilità del lavoratore è, quindi, regolata diversamente – sotto un profilo essenziale come quello della remunerazione – nelle due ipotesi, pur non essendo nelle stesse distinguibile sia sul piano giuridico (cfr. le sanzioni per l’inadempimento alla richiesta di lavoro) che su quello socio-economico. Di qui, appunto, il contrasto con i principi enucleabili dall’art. 3 Cost.
11. Il contratto di lavoro subordinato a prestazioni ripartite.
Del tutto nuova è altresì la disciplina del contratto di lavoro ripartito (art. 41 e ss.). Con la stipulazione di questo contratto, infatti, “due o più lavoratori assumono in solido l’adempimento di un’unica e identica obbligazione lavorativa” ma – salva diversa previsione del contratto individuale – “ogni lavoratore resta personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento della intera obbligazione lavorativa” (art. 41, co. 1 e 2).
Presupposto di fatto del contratto di lavoro ripartito, quindi, è la fungibilità della prestazione di lavoro. In altri termini, per il datore di lavoro è indifferente chi tra i coobbligati presti in concreto l’attività e ciò spiega perché i lavoratori abbiano “la facoltà di determinare discrezionalmente e in qualsiasi momento sostituzioni tra loro, nonché di modificare consensualmente la collocazione temporale dell’orario di lavoro” (art. 41, co. 3). La fungibilità della prestazione lavorativa è tale che il datore di lavoro può ritenere perfino conveniente, nel caso di impossibilità di uno o di entrambi i lavoratori coobbligati, consentire che essi siano sostituiti “da terzi” estranei al contratto di lavoro (art. 41, co. 4).
La sostituzione di uno o di entrambi i lavoratori da parte di un terzo, in termini più rigorosi, costituisce una modificazione soggettiva del debitore della prestazione (di lavoro) e configurerà un’ipotesi di cessione temporanea del contratto di lavoro subordinato. Vicenda circolatoria del contratto di lavoro subordinato del tutto inedita e, quindi, possibile fondamento di interessanti implicazioni sistematiche.
Il legislatore, però, riconosce al datore di lavoro uno specifico interesse all’integrale e completo adempimento dell’obbligazione lavorativa. Si tratta, ovviamente, di un interesse sempre presente nelle relazioni di lavoro ma che, normalmente, è sacrificato in presenza di eventi quali malattie, infortuni o gravidanze del lavoratore o della lavoratrice. Non accade lo stesso, invece, nel caso del lavoro ripartito: poiché ciascun lavoratore è “responsabile dell’adempimento della intera obbligazione lavorativa”, infatti, l’impedimento temporaneo di uno dei coobbligati comporterà, per l’altro, l’obbligo di adempiere per intero all’obbligazione lavorativa (salvo che il datore di lavoro consenta, come anticipato, la sostituzione del lavoratore assente con un terzo).
In altri termini, mediante la stipulazione di un contratto di lavoro ripartito, il rischio derivante dall’impossibilità temporanea sopravvenuta della prestazione sia “trasferito” dal datore di lavoro ai lavoratori coobbligati.
Che, poi, sia questo l’interesse dell’imprenditore tutelato dal legislatore lo si evince chiaramente dal fatto che “le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori coobbligati comportano l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale” (art. 41, co. 5). In tale ipotesi, infatti, vengono meno il particolare “vincolo di solidarietà” tra i lavoratori e il conseguente trasferimento del rischio della mancata prestazione, non certo la possibilità di ottenere l’attività lavorativa dedotta in contratto. Al verificarsi di tale situazione, comunque, il datore di lavoro potrà scegliere tra l’estinzione automatica del rapporto di lavoro ripartito o l’accettazione della prestazione offerta dall’altro lavoratore (con la conseguente “trasformazione” del contratto di lavoro ripartito in un normale contratto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 c.c.: art. 41, co. 5).
Ma, quale ulteriore esempio della protezione giuridica accordata all’interesse del datore di lavoro innanzi individuato, è altresì possibile indicare la particolare ipotesi di “estinzione” dell’obbligazione lavorativa prevista dall’art. 41, co. 6. Il Governo, infatti, prevede che “salvo diversa intesa tra le parti, l’impedimento di entrambi i lavoratori coobbligati è disciplinato ai sensi dell’articolo 1256 del codice civile”: norma che dispone, come è noto, l’estinzione dell’obbligazione allorché questa diventi definitivamente impossibile per causa non imputabile al debitore (co. 1); nonché per la diversa ipotesi in cui l’impossibilità della prestazione sia solo temporanea ma perduri “fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non [possa] più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non [abbia] più interesse a conseguirla” (co. 2).
Orbene, le particolari caratteristiche dell’obbligazione di lavoro subordinato rendono di difficile configurazione pratica la prima delle due fattispecie estintive regolate dall’art. 1256, co. 2, ma non la seconda.
Il mantenimento di un’occupazione per i due o più lavoratori coobbligati, allora, dipenderà dalla persistenza o meno dell’interesse del datore di lavoro ad ottenere un adempimento tardivo dell’obbligazione lavorativa. In altri termini, i lavoratori coobbligati non avranno diritto alla conservazione del posto di lavoro in occasione di eventi quali infortunio, malattia, gravidanza e puerperio; e, in tali ipotesi, essi rischieranno di perdere il lavoro qualora l’imprenditore dimostri di non avere alcun interesse a ricevere la prestazione successivamente al venire meno dell’impedimento.
L’utilità della prestazione, e conseguentemente l’interesse del datore di lavoro a riceverla, dovrà peraltro essere valutata in concreto tenendo conto delle mansioni svolte dai lavoratori assenti, dell’organizzazione di lavoro e dell’eventuale rigida predeterminazione dei tempi di esecuzione della prestazione (per cui l’attività non eseguita a tempo debito non è più recuperabile), della prevedibile durata dell’assenza di entrambi i lavoratori, della possibilità di sostituzione e così via.
La disciplina in commento, per il vero, pone anche ulteriori questioni di non agevole soluzione. Ad esempio, occorrerà stabilire se al lavoratore infortunato o ammalato – e, quindi, sostituito dal lavoratore coobbligato – spetti comunque l’indennità prevista dall’art. 2110 c.c.; o se il condebitore solidale possa considerarsi obbligato a prestare attività lavorativa allorché il suo collega aderisca ad uno sciopero.
Si tratta di problemi inediti, che dovranno essere attentamente vagliati in futuro, e che confermano l’attenzione del Governo per le trasformazioni che interessano il modo di produrre e le forme di integrazione del lavoro nell’impresa; ma che, nel medesimo tempo, dimostrano una minore sensibilità per le conseguenze che i nuovi modelli giuridici di acquisizione della manodopera hanno sulla vita (lavorativa e non) delle persone.
12. La disciplina delle prestazioni di lavoro autonomo: il contratto di lavoro autonomo a progetto e le prestazioni occasionali.
Molto controversa e discussa è anche la disciplina dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (art. 61). Dopo la diffusione dello schema di decreto legislativo, infatti, valutazioni critiche sono state avanzate un po’ da ogni parte, ivi compresa dalla Confindustria (che pure, in un primo momento, aveva mostrato apprezzamento per la riforma).
Per non restare invischiati nella polemica è opportuno ricordare che, ad oggi, le collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 409, co. 3, c.p.c. – al quale l’art. 61 dello schema si riferisce esplicitamente – non costituiscono un particolare tipo contrattuale, bensì una categoria aperta di rapporti giuridici caratterizzati da un elemento negativo (l’assenza del vincolo di subordinazione) e da tre elementi positivi (personalità, coordinamento e continuità della prestazione).
Le collaborazioni coordinate e continuative, insomma, sono oggi identificate sulla base dell’autonomia del lavoratore nell’esecuzione della prestazione; della prevalenza dell’attività personale del lavoratore rispetto all’opera eventualmente svolta dai suoi collaboratori e all’utilizzazione di un’organizzazione di mezzi; del coordinamento inteso come collegamento funzionale della prestazione lavorativa con l’attività di un’organizzazione altrui; e, infine, della continuità (ideale e non meramente materiale/cronologica) intesa come disponibilità a soddisfare interesse durevole del committente.
Orbene, il problema si pone perché il Governo ha deciso di ricondurre tutte le collaborazioni coordinate e continuative ad una fattispecie o tipo negoziale esclusivo (art. 69, co. 1) e, alla ricerca di un dato estrinseco che facilitasse la qualificazione giuridica di questi rapporti, l’ha individuato nella riconducibilità dell’attività lavorativa prevalentemente personale “a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore” (art. 61, co. 1).
In altri termini, la fattispecie del contratto di lavoro a progetto – questo il nomen juris scelto dal Governo – è identificata dai quattro elementi già presenti nell’art. 409, co. 3, c.p.c. e da un ulteriore, quinto, elemento. Ma proprio questa circostanza è foriera di conseguenze pratiche e sistematiche contraddittorie le quali dimostrano, purtroppo, la scarsa consapevolezza del problema da parte degli estensori delle norme in discorso.
Infatti, avendo il Governo previsto che “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso [siano] considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto” (art. 69, co. 1), deve concludersi che – paradossalmente – saranno qualificabili come rapporti di lavoro subordinato anche i rapporti che presentino tutti gli altri requisiti richiesti dall’art. 61, co. 1, ivi compreso quello dell’esecuzione della prestazione “senza vincolo di subordinazione”!
L’antinomia è evidente: nell’art. 61, co. 1, infatti, il legislatore considera (correttamente) il progetto, il programma o la fase di lavoro come elementi (alternativi) estrinseci in grado di definire la fattispecie del contratto a progetto ma estranei al vincolo di subordinazione (la cui assenza, infatti, costituisce un ulteriore elemento del tipo contrattuale); nell’art. 69, co. 1, invece, il Governo considera l’assenza di un progetto o di un programma aziendali nonché la non inerenza del lavoro ad una specifica fase come indici dai quali dedurre l’esistenza del vincolo della subordinazione (realizzando, in questo modo, anche un’integrazione della fattispecie di cui all’art. 2094 del codice civile).
Le implicazioni di un simile assetto normativo non dovrebbero sfuggire. Per limitarsi ad un esempio, si pensi al lavoratore che – non iscritto ad alcun albo professionale – svolga in favore di un imprenditore un’attività continuativa di consulenza informatica, magari recandosi una volta la settimana in azienda ma scegliendo tempi, orari e modalità di esecuzione della propria attività. Valutando le modalità di esecuzione della prestazione, è abbastanza ragionevole concludere che si sia in presenza di un’attività di lavoro autonomo, sebbene funzionalmente integrata nell’organizzazione dell’impresa. Ma è altresì evidente che quell’attività di consulenza, per il suo oggetto specifico, non sia connessa ad alcun particolare progetto, programma o fase di lavoro: in futuro, quindi, dovremo qualificare tale rapporto come subordinato.
Nè occorre farsi illusioni sul livello di protezione del lavoratore così realizzata: gli operatori escogiteranno presto espedienti più o meno sicuri per sottrarsi all’applicazione dell’art. 61, magari imponendo al lavoratore di costituire società – anche di persone – alle quali imputare formalmente il rapporto giuridico e, conseguentemente, qualificando la collaborazione nei fatti realizzata con uno dei soci come integrazione tra attività facenti capo a imprese diverse (con ulteriore indebolimento della posizione di chi effettua materialmente la prestazione).
Per effetto della futura disciplina, inoltre, il contratto di lavoro a progetto avrà sempre un termine di efficacia, generalmente imprecisato ma sempre determinabile in ragione della realizzazione del progetto, del programma o della fase di lavoro (art. 67, co. 1).
La definizione del contratto di lavoro a progetto, infine, è funzionale all’imputazione di una specifica disciplina legale che attribuisce al committente il potere di determinazione dei progetti, programmi e fasi di lavoro ai quali è connessa l’attività nonché il potere di determinare quelle modalità temporali e/o spaziali della prestazione essenziali per l’integrazione funzionale della stessa nel ciclo economico dell’impresa; e che, conseguentemente, restringe l’autonomia del lavoratore alla libertà di scegliere gli atti più idonei al conseguimento dell’oggetto dedotto in obbligazione (così, almeno, pare si debba intendere il riferimento alla “gestione autonoma in funzione del risultato” di cui all’art. 61, co. 1).
Per il resto, il Governo si è preoccupato di distinguere il lavoro a progetto dal lavoro meramente occasionale (in cui l’occasionalità viene meno in caso di superamento di determinati limiti relativi alla durata della prestazione e all’ammontare complessivo del compenso: art. 61, co. 2), ponendo ulteriori problemi di coordinamento tra fattispecie; mentre la disciplina del rapporto, davvero scarna, si risolve nella previsione di vincoli di forma e di contenuto del contratto (art. 62); nel riconoscimento di alcuni diritti al lavoratore (artt. 63, 65 e 66) e nell’imposizione allo stesso di alcuni obblighi di comportamento (art. 64).
13. La certificazione dei rapporti di lavoro.
Estremamente controversa è, infine, anche la disciplina della certificazione dei rapporti di lavoro (art. 75 e ss.). Si tratta, in sintesi, di una procedura posta in essere innanzi a Commissioni appositamente abilitate (artt. 76 e 77) e che si conclude con un atto amministrativo di validazione del programma negoziale contenuto nel documento sottoscritto dalle parti.
L’auspicio è che l’atto certificatorio (il quale contrariamente a quanto lascia intendere l’art. 80, co. 1, non ha natura negoziale), fissando la qualificazione giuridica del rapporto che le parti intendono instaurare, prevenga il ricorso al giudice e l’instaurazione del processo in un numero di casi quantitativamente rilevante e statisticamente apprezzabile.
Un’attenta riflessione, però, rivela tutti i limiti di questa prospettiva.
Anzitutto, è da precisare che l’eventuale certificazione non è in grado di precludere o di condizionare il successivo svolgimento dell’attività di qualificazione nel corso di un giudizio (anche se il comportamento delle parti, e soprattutto del datore di lavoro, in sede di certificazione “potrà essere valutato” dal giudice ai fini della pronuncia sulle spese del giudizio: art. 80, co. 3). L’impossibilità del prodursi di effetti preclusivi o condizionanti è esplicitamente ammesso dallo stesso legislatore allorché afferma la possibilità per le parti di ricorrere al giudice nelle ipotesi di “erronea qualificazione del contratto” oppure di “difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione”; ma anche allorché si tratti di impugnare l’atto di certificazione “per vizi del consenso” (art. 80, co. 1).
Ma, soprattutto, l’assetto giuridico innanzi descritto appare costituzionalmente necessitato.
L’art. 24 Cost., infatti, sancisce espressamente che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”; e, poiché la qualificazione giuridica di qualsiasi rapporto non è mai fine a se stessa bensì sempre strumentale al riconoscimento di diritti, è evidente come riconoscere alla procedura certificatoria un’efficacia preclusiva del giudizio avrebbe comportato inevitabilmente una violazione del precetto costituzionale.
Né si può ritenere che il giudice sia vincolato alla qualificazione negoziale precedentemente certificata. Se così fosse, infatti, una fase essenziale del giudizio – vale a dire, appunto, quella della qualificazione giuridica della fattispecie o, in altri termini, quella della sussunzione della fattispecie concreta nella norma generale e astratta – sarebbe sostanzialmente svolta da enti e/o organi diversi dalla magistratura; mentre è noto come l’art. 102, co. 1, Cost. garantisca che “la funzione giurisdizionale [sia] esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. Insomma, delle due l’una: o le parti rinunciano alla giurisdizione del magistrato ordinario affidando ad un terzo la decisione della controversia (e si avrà un arbitrato); oppure ricorrono al giudice e questi porrà in essere tutte le attività valutative necessarie alla decisione per cui il suo potere qualificatorio non potrà essere inibito o condizionato dall’eventuale certificazione.
Se la validazione da parte dell’ente certificatore non è in grado di precludere il successivo giudizio, è chiaro che l’efficacia stessa del nuovo istituto è già di per sé fortemente limitata. Ma c’è di più. Se si affronta la questione avendo di vista l’intento delle parti (e tra queste della parte più forte, vale a dire del datore di lavoro), pare si possa concludere per la sostanziale inutilità dell’istituto. Infatti, se il datore di lavoro intende realizzare in concreto un rapporto diverso da quello che ha dichiarato di costituire nel documento certificato (ad esempio, intende realizzare un rapporto di lavoro subordinato a tempo parziale anziché un rapporto di lavoro a progetto), la certificazione è inutile perché è destinata ad essere superata – come già argomentato – dalla successiva sentenza del giudice. Ma la certificazione è inutile anche nel il caso in cui il datore di lavoro intenda porre in essere proprio il rapporto di lavoro dichiarato nel documento sottoposto a certificazione: in tal caso, infatti, sarà sufficiente che egli eserciti soltanto i diritti e poteri che gli sono riconosciuti dalla legge in relazione a quella fattispecie negoziale (ad esempio, il potere di coordinamento se si tratta di lavoro a progetto) e non quelli propri di una fattispecie diversa (sempre a titolo di esempio, i poteri direttivo o disciplinare propri del lavoro subordinato). Né, infine, è possibile sostenere che la certificazione sia determinante nei casi in cui l’ambiguità della dinamica esecutiva del rapporto renda difficile la qualificazione del rapporto: già oggi, infatti, la giurisprudenza riconosce valore determinante – sebbene residuale – alle manifestazioni di volontà espresse nel contratto.
Più delicata è un’altra questione, relativa agli effetti della sentenza che dichiari la difformità tra il programma negoziale certificato e la successiva dinamica del rapporto. Lo schema di d. lgs., infatti, dispone che in questo caso l’accertamento giudiziale abbia “effetto a partire dal momento in cui la sentenza accerta che ha avuto inizio la difformità stessa” (art. 80, co. 2). La certificazione, in altri termini, comporterebbe una modificazione degli effetti “normali” della sentenza che potrebbero retroagire soltanto fino al momento in cui si verifica per la prima volta quella difformità (in termini più rigorosi, l’effetto revocatorio della sentenza investirebbe soltanto una parte degli effetti negoziali).
La questione pone problemi di diritto processuale e pratici che in questa sede non è possibile affrontare adeguatamente. Tuttavia, è possibile affermare che tale assetto giuridico comporta un’irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori il cui contratto sia validato secondo la procedura di certificazione e lavoratori il cui contratto non sia certificato (ragione per cui esso violerebbe quanto meno l’art. 3 Cost.). Infatti, di fronte ad una medesima circostanza di fatto – vale a dire in presenza di una difformità tra programma negoziale e attuazione del rapporto di lavoro – soltanto i secondi potrebbero ottenere una sentenza di annullamento del contratto, mentre i primi avrebbero diritto ad una sentenza dagli effetti sostanziali diversi e più limitati nel tempo. Sennonché, e questo è il punto, questa diversità di disciplina non si presta ad essere giustificata soltanto in base all’esistenza o meno di un atto che si limita a certificare quanto esternato dalle parti nel documento negoziale.
Chi condivida quanto espresso in precedenza, quindi, deve concludere che l’eventuale certificazione del contratto può essere utile soltanto sul piano meramente fattuale: nei limiti, ad esempio, in cui crei nel lavoratore la (erronea) convinzione della non contestabilità della qualificazione giuridica certificata; o in cui la possibilità di confermare acriticamente quanto precedentemente certificato induca il giudice a deresponsabilizzarsi e – in sostanza – a non formulare una propria valutazione circa il caso concreto.
Le preoccupazioni sollecitate da questo istituto, se ci si fermasse alla sua funzione dichiarata, potrebbero pertanto essere ridimensionate. Vi è, però, una norma che deve essere valutata con molta attenzione perché – a parere di chi scrive – svela un’ulteriore scelta politica del Governo.
Lo schema di d. lgs., infatti, nulla dice sulla procedura di certificazione (la cui articolazione è rimessa all’autonomia di ciascuna commissione), mentre detta alcuni principi generali relativi all’atto di validazione (art. 78). Il Governo, poi, delega il Ministro del lavoro ad adottare, entro sei mesi dall’entrata in vigore del d. lgs., “codici di buone pratiche per l’individuazione delle clausole indisponibili in sede di certificazione dei rapporti di lavoro, con specifico riferimento ai diritti e ai trattamenti economici e normativi” (art. 78, co. 4).
La certificazione, insomma, a dispetto del nomen juris, in questa ipotesi non riguarderebbe esclusivamente la dimensione qualificatoria del negozio giuridico: sarebbe, invece, un mezzo per garantire alle parti la (tendenzialmente) piena disponibilità del regolamento negoziale. Contrariamente a quanto accaduto finora, per cui il legislatore prendeva atto dell’inferiorità della posizione del lavoratore e tentava di riequilibrarla imputandovi norme legali inderogabili (o derogabili soltanto dall’autonomia collettiva), in futuro saranno le parti a scegliere “liberamente” quale regolamento legale applicare al contratto.
Nè è apprezzabile l’effetto di inderogabilità (delle norme) derivanti dai codici di buone pratiche. A parte alcune imprecisioni concettuali, il legislatore non ha individuato i criteri in base ai quali il Ministro del lavoro dovrà formulare i suddetti codici (per cui, salvo il caso di “indicazioni contenute negli accordi interconfederali stipulati da associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative” e il limite derivante dai vincoli costituzionali, la discrezionalità del Ministro potrà essere molto ampia). Ma, soprattutto, lo schema non stabilisce alcuna conseguenza per il caso in cui le parti – in sede di “certificazione” – decidano di discostarsi dalle previsioni dei suddetti codici.
La disposizione in discorso, insomma, è espressione di un profondo mutamento di politica del diritto: con essa, infatti, i contratti di lavoro intermittente, di lavoro ripartito, di lavoro subordinato a tempo parziale, di lavoro a progetto e di associazione in partecipazione (cioè le fattispecie negoziali alle quali si applicherà questa disciplina: art. 75, co. 1) non saranno più dotati di una regolamentazione legale specifica ed inderogabile, ma saranno sostanzialmente affidati all’autonomia privata. In questo contesto, il ruolo della Commissione di certificazione – proprio perché limitato alla fase genetica del rapporto – è minimo: difficilmente, infatti, esso potrà costituire una fattore di riequilibrio delle posizioni delle parti dal momento che, se un riequilibrio dovesse diventare concreto, al datore di lavoro resterebbe pur sempre la possibilità di non procedere all’assunzione.
Chi condivida le considerazioni critiche che precedono, peraltro, non può farne derivare un facile giudizio negativo nei confronti delle politiche dell’attuale Governo. Da più parti, infatti, si tende a dimenticare come l’attuale disciplina della certificazione riprenda testualmente quella contenuta nello schema di d.d.l. per uno “Statuto dei lavori” elaborata su indicazione dell’allora Ministro del lavoro Treu e formalizzata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri il 25 marzo 1998 (vedilo in Treu, Politiche del lavoro, Il Mulino, 2001, pp. 343). E ciò vale anche per la disposizione da ultimo commentata, che ha il suo precedente nell’art. 38, co. 3, di quella bozza di disegno di legge.
14. Alcune considerazioni conclusive.
Lo schema di d. lgs. analizzato in questa sede costituisce un tentativo di soluzione – soltanto in parte inedito – di rispondere ad un problema reale.
Nell’impresa, infatti, sono sempre più frequenti profonde modificazioni dei processi produttivi; e gli effetti di queste trasformazioni, lungi dal restare confinati nella sfera della produzione, si estendono all’organizzazione sociale nel suo complesso. Ciò non significa, beninteso, che tutte le imprese italiane siano interessate allo stesso modo dalle innovazioni di cui si è detto; né che il fenomeno considerato sia registrabile nelle medesime proporzioni sull’intero territorio nazionale. Non significa neppure che il lavoro subordinato sia scomparso o in via di estinzione.
La sfida, pertanto, consiste nel ripensare le ragioni e le forme della regolazione delle relazioni di lavoro coniugando efficienza dell’impresa e coesione sociale.
In questo contesto, il diritto del lavoro tradizionale e le sue garanzie non pare abbiano esaurito la propria funzione.
Il lavoro subordinato, privo di qualsiasi autonomia operativa, esiste tuttora ed è ancora socialmente sottoprotetto (perché è ancora vero che la retribuzione è spesso l’unico mezzo di sostentamento del lavoratore e della sua famiglia). Ma accanto ad esso esiste altresì il lavoro subordinato che, pur restando controllato ed eterodiretto, è caratterizzato da discreti margini di autonomia operativa; e che spesso è svolto da lavoratori i quali, in ragione delle proprie particolari abilità o capacità professionali e dell’appetibilità che esse hanno per l’impresa, sono meno esposti al bisogno economico e al rischio di sfruttamento. Così come esistono forme di lavoro autonomo che, nonostante tale loro caratteristica, sono integrate funzionalmente nell’impresa e dipendono in varia misura dal suo ciclo economico.
La protezione giuridica necessaria nelle tre ipotesi innanzi esemplificate è diversa, però è sempre concreta. Essa, peraltro, deve realizzarsi nella regolazione delle relazioni di lavoro, ma richiede anche la predisposizione di nuove ed articolate forme di tutela previdenziale. E’ la stessa costituzione economico-sociale, del resto, ad imporre una riorganizzazione delle garanzie del lavoro (come espressamente prevede l’art. 35, co. 1, Cost.).
Le osservazioni critiche che precedono, pertanto, non riguardano il problema da affrontare – vale a dire il governo delle trasformazioni che hanno quale epicentro l’impresa e la riforma degli istituti giuslavoristici – bensì soltanto le soluzioni che questo Governo ritiene di proporre e, in definitiva, la ridefinizione degli equilibri interni al diritto del lavoro in senso più favorevole al datore di lavoro.
L’analisi che precede dovrebbe aver fornito diversi esempi di questa opzione di politica del diritto. Il dissenso, pertanto, riguarda la scelta del legislatore di considerare le esigenze organizzative e produttive del singolo imprenditore come generalmente meritevoli di tutela e di soddisfazione, lasciando la protezione dei lavoratori – così come la solidità del tessuto sociale – all’operare “spontaneo” dei meccanismi di mercato. Ci sono, invece, buone ragioni per ritenere che la tutela di chi modella il suo personale progetto di lavoro e di vita in base alle esigenze produttive altrui non sia affidata solo ed esclusivamente al “senso di responsabilità” di chi ne utilizza le prestazioni.