Vito Pinto – ricercatore di Diritto del lavoro all’Università di Bari
PARTE I
Con l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri dello schema di decreto legislativo di attuazione della delega conferita con la legge n. 30/2003, è stato avviato l’iter che condurrà alla realizzazione di una parte consistente del progetto politico presentato nel Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia dell’ottobre 2001.
Chi scrive ha già avuto di modo di commentare sinteticamente, su queste stesse pagine, la legge delega (in Occupazione e mercato del lavoro del 25 febbraio 2003). Ma è evidente che ora, essendo disponibile un articolato normativo (sebbene ancora privo di efficacia legale), è possibile una riflessione più compiuta su alcuni tratti caratterizzanti la futura riforma delle relazioni di lavoro.
Ciò non significa, peraltro, che nel prosieguo sarà possibile occuparsi di tutti gli istituti introdotti, regolati o modificati dallo schema di decreto legislativo. Questo, infatti, consta di ben 86 articoli, suddivisi in nove Titoli a seconda dell’oggetto (disposizioni generali; organizzazione e disciplina del mercato del lavoro; somministrazione di lavoro, appalto di servizi, distacco; disposizioni in materia di gruppi di impresa e trasferimento di azienda; tipologie contrattuali a orario ridotto, modulato o flessibile; apprendistato e contratto di inserimento; tipologie contrattuali a progetto e occasionali; procedure di certificazione; disposizioni transitorie e finali).
I tratti fondamentali della riforma, tuttavia, possono essere utilmente discussi evidenziando le tre grandi direttrici su cui si muoverà il legislatore: vale a dire il sostegno (normativo) alle iniziative imprenditoriali di organizzazione e riorganizzazione dell’attività produttiva; il nuovo assetto di poteri e diritti nei rapporti individuali di lavoro (subordinato o autonomo); la (tendenziale) limitazione del controllo giudiziale quale garanzia di certezza e di definitività degli atti imprenditoriali.
Per il vero, c’è una quarto nucleo regolativo – costituito dalle previsioni a tutela delle persone in cerca di occupazione allorché queste si avvalgano dell’attività di imprenditori specializzati (cd. agenzie) – che non è meno importante delle precedenti ma che, ciò nonostante, non pare caratterizzare il provvedimento governativo. La tutela dei dati personali di quei lavoratori (art. 8), la completezza e la correttezza delle offerte di lavoro (art. 9), i divieti di indagini sulle opinioni e di trattamenti discriminatori (art. 10), il divieto di percepire compensi dai lavoratori medesimi (art. 11), infatti, sono tutele che non presuppongono l’instaurazione di un rapporto di lavoro e, per definizione, non intervengono a correggere l’asimmetria di potere sociale e giuridico caratteristica del lavoro salariato. I tratti caratterizzanti della riforma, invece, incidono sempre – direttamente o indirettamente – su quell’asimmetria; e per questo motivo meritano un’attenzione specifica.
1. Un’ipotesi interpretativa.
Prima ancora di passare all’analisi del testo, però, è opportuno azzardare un’ipotesi ricostruttiva – per quanto sintetica e bisognosa di successivi approfondimenti – delle scelte di politica del diritto compiute dal Governo. Già una lettura superficiale dello schema di decreto legislativo, infatti, evidenzia come sia erronea – e comunque semplificante – l’opinione diffusa che individua nello schema di decreto legislativo un tentativo di “deregolamentare il mercato del lavoro”.
In realtà, lo schema di d. lgs. aumenta (e non diminuisce) le regole giuslavoristiche; ma nel fare ciò, e questo è il punto decisivo, realizza una mediazione tra gli opposti interessi del datore di lavoro e del lavoratore assegnando (tendenzialmente) ai primi la prevalenza.
A ben vedere, infatti, il Governo ha un preciso interesse ad incrementare l’occupazione, se non altro per mantenere gli impegni assunti in sede comunitaria. Questo interesse pare coniugarsi con l’interesse della classe imprenditoriale a fondare la propria capacità competitiva non sulla qualità e quantità degli investimenti (non si dimentichi l’incidenza che su questo profilo hanno anche le ridotte dimensioni e le caratterizzazione familiare di molte imprese italiane), bensì sulla più semplice compressione dei costi di produzione e – per quanto qui interessa – sulla riduzione dei costi di organizzazione e di utilizzazione del lavoro (subordinato o, come si vedrà, anche parasubordinato).
Resta in secondo piano, invece, l’interesse di ciascun lavoratore a disporre di un lavoro e di un reddito che siano fonte di sicurezza personale e familiare. Questo vale, evidentemente, per i lavoratori di bassa qualificazione professionale e sempre esposti al rischio di emarginazione; ma anche, sia chiaro, per i lavoratori più fortunati che – in possesso di professionalità richiesta dalle imprese e residenti in aree del Paese in cui c’è ampia offerta di occasioni lavorative, per quanto temporanee – migrano da un posto di lavoro all’altro, magari alla ricerca di maggiori soddisfazioni e riconoscimenti professionali. La loro sicurezza, infatti, è legata alle loro abilità e capacità di lavoro e, quindi, viene meno allorché queste diventino obsolete o non possano essere esercitate per l’intervenire di eventi che rendano impossibile la prestazione (malattia, infortunio, e così via).
In un simile contesto sociale e normativo, non è neppure vero che il Governo tenda a marginalizzare tout court il ruolo del sindacato e della contrattazione collettiva. Se così fosse, infatti, sarebbe impossibile spiegare perché lo schema di decreto contenga numerosi rinvii ai contratti collettivi; o perché un ruolo importante nell’attuazione della riforma sia attribuito agli enti bilaterali.
L’operazione, in realtà, è più complessa. Non c’è dubbio, infatti, che il Governo intenda cooptare anche le organizzazioni sindacali nel proprio progetto di riforma. Ma non intende assegnare a nessuna organizzazione sindacale un potere di controllo o di condizionamento delle scelte imprenditoriali; e, soprattutto, intende imbrigliare le capacità conflittuali del sindacato accentuandone quelle collaborative. In questa linea di politica del diritto, in altri termini, l’azione sindacale pare sia valorizzata esclusivamente in quanto fattore di razionalizzazione, stabilizzazione e controllo delle relazioni di lavoro (specie a livello decentrato).
Inoltre, è evidente l’intento di assegnare un ruolo prioritario nell’attuazione della riforma ai sistemi decentrati di relazioni industriali: e ciò, se non altro, al fine di non precludere alle singole imprese la possibilità di concordare soluzioni normative che meglio si adeguino alle proprie specifiche condizioni.
Sintomatica di tali opzioni è proprio l’enfasi posta sul ruolo degli enti bilaterali: vale a dire di quelle sedi in cui proprio l’istituzionalizzazione delle relazioni collettive, implicando una sorta di negoziazione informale ma continua e diffusa, è la migliore garanzia di prevenzione dei conflitti di interesse tra datori di lavoro e lavoratori e di decentramento delle scelte sindacali.
Tuttavia, quelle che precedono sono – appunto – mere ipotesi interpretative, che devono essere verificate anzitutto con riferimento alle norme applicabili ai processi di organizzazione e/o di riorganizzazione del lavoro.
2. La somministrazione di manodopera a termine e a tempo indeterminato.
Lo schema di d. lgs., anzitutto, mette a disposizione dell’imprenditore nuovi strumenti – diversi dalla stipulazione di contratti di lavoro subordinato – per l’acquisizione della manodopera necessaria al processo produttivo.
Abrogando sia la legge n. 1369 del 1960 (ed in particolare la disposizione che vietava l’affidamento a terzi della “esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita” da quest’ultimo), sia l’intera disciplina del lavoro interinale, il Governo ha completamente cancellato l’assetto normativo preesistente per poi riregolare la materia introducendo le nuove fattispecie della somministrazione di manodopera a tempo determinato (art. 20, co. 4) e a tempo indeterminato (art. 20, co. 3).
La somministrazione è definita dal legislatore come “fornitura professionale di manodopera” (art. 2, co. 1, lett. a) e consiste nell’assegnazione di lavoratori, assunti da un imprenditore detto somministratore, ad altro imprenditore che ne utilizza le prestazioni lavorative integrandole nella propria organizzazione produttiva. Pertanto, i lavoratori somministrati “per tutta la durata della somministrazione […] svolgono la propria attività nell’interesse nonché sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore” (art. 20, co. 2).
Il contratto di somministrazione, quindi, è il contratto di natura commerciale che vincola l’imprenditore-creditore dell’assegnazione e l’imprenditore debitore della medesima; mentre i lavoratori sono vincolati a quest’ultimo in esecuzione di un normale contratto di lavoro subordinato (a tempo indeterminato o, a seconda dei casi, a tempo determinato).
Nessun vincolo negoziale diretto, invece, intercorre tra l’imprenditore beneficiario delle prestazioni lavorative (cd. utilizzatore) e i singoli prestatori di lavoro (che sono e restano sempre dipendenti dell’imprenditore somministratore). In altri termini, l’impresa che ricorrerà alla somministrazione disporrà di manodopera senza però assumere la veste formale di datore di lavoro e, quindi, senza essere titolare dei relativi contratti di lavoro subordinato.
Nell’analizzare la disciplina della somministrazione, comunque, conviene prendere le mosse da quella a tempo determinato (vale a dire dalla normativa che, in concreto, sostituirà quella del lavoro temporaneo tramite agenzia di cui alla legge n. 196/1997).
Con l’entrata in vigore del d. lgs., infatti, questo tipo di somministrazione di manodopera sarà sostanzialmente liberalizzata dal momento che essa sarà permessa “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore” (art. 20, co. 4).
La norma pare sufficientemente chiara: a differenza di quanto previsto per il lavoro interinale – in cui il requisito della “temporaneità” era il predicato delle esigenze organizzative analiticamente tipizzate (dal legislatore o dalla contrattazione collettiva) e in presenza delle quali soltanto era ammissibile il ricorso all’istituto – in questo caso temporalmente limitata è soltanto l’efficacia del contratto di somministrazione. Nello schema di d. lgs., infatti, non solo le esigenze imprenditoriali che legittimano il ricorso alla somministrazione sono indicate tramite clausole generali (come avviene, ad esempio, nel d. lgs. n. 368/2001 con riferimento al contratto di lavoro subordinato a termine), ma è espressamente chiarito che tali esigenze non devono essere straordinarie – e perciò stesso temporalmente limitate – ma possono essere riferibili anche “all’ordinaria attività dell’utilizzatore”.
Il punto è delicato e merita attenzione. È evidente, infatti, che se le causali che legittimano il ricorso alla somministrazione sono individuate genericamente e non sono neppure contraddistinte dal requisito della temporaneità, qualsiasi esigenza riferibile all’attività produttiva che sia addotta dall’imprenditore/utilizzatore sarà idonea a giustificare la stipulazione di un contratto di somministrazione. Gli unici limiti imposti all’autonomia dell’imprenditore derivano dalla necessità che il contratto di somministrazione sia a termine; e dall’impossibilità di ricorrere a lavoratori somministrati per sostituire lavoratori in sciopero nonché in due casi specificamente previsti dal d. lgs. (art. 20, co. 5, su cui v. § seguente).
L’intento di assicurare i più ampi margini di scelta all’imprenditore (ma anche l’altro intento, consistente nel limitare al massimo le ipotesi in cui – a seguito del controllo giudiziale – le scelte dell’impresa possano produrre effetti diversi da quelli voluti) è confermato dall’art. 27, co. 3 (applicabile anche alla somministrazione a tempo indeterminato), il quale espressamente prevede che “ai fini della valutazione delle ragioni […] che consentono la somministrazione di lavoro il controllo giudiziale è limitato esclusivamente all’accertamento della esistenza delle ragioni che la giustificano e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano all’utilizzatore”.
Lo schema di d. lgs., peraltro, non offre nessuna indicazione circa la durata massima della somministrazione a termine, né regola in alcun modo alcune rilevanti vicende modificative del rapporto commerciale (quali la proroga del termine o il rinnovo del contratto).
La prosecuzione dell’attività di somministrazione oltre il termine pattuito, invece, dovrebbe essere qualificabile in termini di somministrazione irregolare, circostanza che comporta il diritto del lavoratore alla costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore con effetto dall’inizio della somministrazione (arg. ex art. 27, co. 1).
Il ricorso alla somministrazione a tempo indeterminato, invece, è ammesso solo per soddisfare le esigenze tipizzate dal legislatore o dai contratti collettivi di lavoro nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative (art. 20, co. 3). Lo schema di d. lgs., in particolare, tipizza ben 14 diverse causali che legittimano la stipulazione del contratto di somministrazione: ipotesi che vanno dai servizi di facchinaggio o di custodia a quelli di consulenza e assistenza nel settore informatico; dai servizi di trasporto di persone, macchinari e merci all’installazione o smontaggio di impianti e macchinari; fino ad arrivare a quelle “particolari attività produttive” che, articolate in più fasi successive di lavorazione, richiedano con riferimento a taluna di esse “l’impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella normalmente impiegata nell’impresa”.
È appena il caso di notare, tuttavia, che proprio l’alto numero di causali predeterminate dal legislatore (alle quali la contrattazione collettiva potrà aggiungerne delle altre), unitamente all’ampia formulazione di alcune di esse, lascia intendere come il Governo non intenda certo ostacolare il ricorso a questa forma di somministrazione.
3. I requisiti (formali e sostanziali) di legittimità della somministrazione di manodopera.
Entrambi i tipi di somministrazione possono essere esercitati – analogamente a quanto è avvenuto finora con riferimento al lavoro interinale – soltanto da imprenditori in possesso di specifici requisiti giuridici e finanziari (previsti dall’art. 5, co. 1-3), appositamente autorizzati dal Ministero del lavoro ed iscritti all’albo delle agenzie per il lavoro (cfr. art. 4). A differenza di quanto previsto dalla legge n. 196/1997, però, il nuovo regime di autorizzazione non richiede che le società di somministrazione abbiano un oggetto sociale esclusivo (arg. ex art. 5, co. 1, lett. e).
Alla somministrazione di manodopera potranno fare ricorso, invece, tutti gli imprenditori (mentre le pubbliche amministrazioni potranno ricorrere alla sola somministrazione a termine: art. 86, co. 7). Le uniche eccezioni sono rappresentate dagli imprenditori che abbiano proceduto nei sei mesi precedenti a licenziamenti collettivi ovvero abbiano in corso sospensioni o riduzioni di attività con intervento della Cassa integrazione guadagni (purché la somministrazione riguardi le medesime unità produttive e abbia ad oggetto lavoratori da adibire alle stesse mansioni di quelli licenziati, sospesi dal rapporto ovvero occupati ad orario ridotto; e salva, comunque, una diversa disposizione degli accordi sindacali); e da quelli che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 del d lgs. n. 626/1994.
Come anticipato, il rapporto di somministrazione si instaura con la sottoscrizione di un contratto di natura commerciale.
La forma scritta è richiesta ad substantiam così come è necessaria – ai fini della validità del contratto – l’indicazione di alcuni elementi essenziali quali gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore; del numero dei lavoratori da somministrare o le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che legittimano il ricorso alla somministrazione (sia essa a termine o a tempo indeterminato). L’assenza di forma scritta o la mancata indicazione di uno degli elementi necessari determina la nullità del contratto di somministrazione e, per i lavoratori interessati dalla somministrazione, ciò comporta l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’utilizzatore (art. 21, co. 4).
In proposito, peraltro, occorre segnalare che, se è chiaro l’interesse dei lavoratori a far valere la nullità del contratto di somministrazione, più difficile è immaginare come essi possano avere notizia della mancata pattuizione dello stesso in forma scritta o, peggio ancora, dell’assenza nel documento contrattuale di almeno uno degli elementi richiesti ai fini della validità del contratto. Anche perché, in assenza di obblighi di comunicazione e/o di registrazione, non sono da escludere comportamenti collusivi tra somministratore e somministrato al fine di creare – successivamente all’iniziativa giudiziaria dei lavoratori – un documento contrattuale che eviti al primo il discredito commerciale che inevitabilmente seguirebbe alla vicenda e, al secondo, l’assunzione dei lavoratori.
4. Il rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze di un imprenditore somministratore e sotto la direzione di un imprenditore utilizzatore.
Alcune osservazioni, poi, devono essere dedicate all’assetto di poteri e diritti che il legislatore realizza con riferimento alla relazione di lavoro.
Se, da un lato, il contratto di lavoro subordinato stipulato dall’imprenditore somministratore è riconducibile – sotto il profilo tipologico – alla fattispecie di cui all’art. 2094 c.c. (e ciò a differenza di quanto previsto con riferimento al lavoro interinale, nell’ambito del quale il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo era espressamente qualificato come contratto speciale di lavoro), dall’altro lato non c’è dubbio che alcune importanti modificazioni della causa del contratto – si pensi, ad esempio, alla traslazione dei poteri di conformazione e di controllo della prestazione lavorativa in capo all’impresa utilizzatrice – hanno imposto anche in questo caso al legislatore di disciplinare con alcune norme speciali il rapporto tra lavoratore e imprenditori coinvolti nell’operazione.
In altri termini, il legislatore tende sicuramente a ricondurre il contratto e il rapporto dei lavoratori subordinati nell’area della “disciplina generale dei rapporti di lavoro di cui al codice civile e alle leggi speciali” (art. 22, co. 1). Tuttavia, la particolarità dell’istituto – vale a dire il fatto che l’assunzione del lavoratore da parte di un imprenditore sia funzionale all’inserimento materiale del primo nell’organizzazione produttiva di un terzo – ha richiesto la formulazione di alcune regole particolari applicabili soltanto all’ipotesi in discorso. Tali previsioni speciali, in concreto, sono contenute negli artt. 12, 22, 23, 24, 25 e 26 dello schema di decreto legislativo.
Orbene, quanto all’assetto dei poteri riconosciuti ai creditori della prestazione lavorativa, è stato già anticipato che i lavoratori somministrati sono assoggettati alla direzione e al controllo dell’utilizzatore, nell’interesse del quale svolgono la prestazione dedotta in contratto (art. 20, co. 2). Si può aggiungere, peraltro, che la norma non descrive perfettamente l’assetto giuridico realizzato dal legislatore perché – con tutta evidenza – anche l’assegnazione del lavoratore ad un dato utilizzatore costituisce esercizio di un potere direttivo; potere la cui titolarità, tuttavia, è dell’impresa somministratrice. In proposito, comunque, si pongono anche altre questioni che dovranno essere attentamente vagliate: tra le altre, occorrerà stabilire se il lavoratore possa legittimamente rifiutare l’assegnazione ad un imprenditore; ed individuare le conseguenze sanzionatorie del rifiuto illegittimo.
Nell’esercizio del proprio potere direttivo, inoltre, l’utilizzatore potrà variare anche le mansioni del lavoratore somministrato. A differenza di quanto previsto dall’art. 2103 c.c., però, potranno essere assegnate sia mansioni equivalenti, sia mansioni superiori (con il diritto del lavoratore alla retribuzione corrispondente), sia mansioni inferiori rispetto a quelle indicate nel contratto di somministrazione (con diritto del lavoratore al solo risarcimento del danno) (art. 23, co. 6). Anche questa norma porrà diverse questioni applicative che non è possibile esaminare in questa occasione.
Tuttavia, c’è un profilo che merita di essere segnalato.
L’esercizio del cd. jus variandi (e, in definitiva, la modificazione dell’oggetto della prestazione) potrebbe essere tale da comportare la violazione dei limiti imposti dalla stessa legge alla somministrazione di manodopera: si pensi, ad esempio, al caso in cui i lavoratori somministrati siano utilizzati in attività diverse da quelle indicate nel contratto di somministrazione per giustificarne la stipulazione. In tale ipotesi, evidentemente, sarebbe contraddittorio ritenere che il lavoratore abbia diritto soltanto al risarcimento del danno mentre appare più coerente ritenere nullo il contratto di somministrazione (arg. ex art. 21, co. 4).
Quanto al potere disciplinare, la legge ne riserva l’esercizio al somministratore (che, non si dimentichi, è titolare del rapporto di lavoro), mentre l’utilizzatore ha l’onere di comunicare al primo “gli elementi che formeranno oggetto della contestazione” disciplinare (art. 23, co. 7). La scelta del Governo, analoga a quella adottata dalla legge n. 196/1997 con riferimento al lavoro temporaneo, appare per taluni aspetti criticabile, oltre a sollevare non poche questioni interpretative.
Innanzi tutto, sussistono dubbi sull’effettivo rispetto del diritto alla difesa del lavoratore, che potrebbe risultare pregiudicato dal fatto che le giustificazioni saranno rese dinanzi ad un soggetto diverso rispetto a colui che ha raccolto gli elementi della contestazione e che, comunque, è estraneo rispetto al contesto organizzativo nel quale il fatto contestato si è verificato. Inoltre, essa apre una serie di problemi attinenti, ad esempio, alla tempestività della contestazione, all’eventuale difformità di valutazione da parte delle due imprese circa la gravità del comportamento posto in essere dal lavoratore, ad alcuni aspetti processuali in caso di impugnazione della sanzione, agli oneri per la soccombenza in giudizio, e così via.
Quanto ai diritti, lo schema di d. lgs. prevede, anzitutto, che i lavoratori dipendenti dal somministratore abbiano “diritto a un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte” (art. 23, co. 1; regole particolari, invece, sono previste dal co. 4 in relazione all’attribuzione della retribuzione variabile e/o di risultato nonché dei servizi sociali e assistenziali). La parità di trattamento così sancita è decisiva al fine di determinare le convenienze dell’imprenditore nella scelta tra assumere direttamente lavoratori subordinati o farseli somministrare da un’agenzia. La decisione circa il ricorso alla somministrazione, in altri termini, non potrà essere conseguenza (almeno tendenzialmente, come si mostrerà) della possibilità di risparmiare sulle retribuzioni e sul costo del lavoro. Tuttavia, come si mostrerà nel § seguente, il principio di parità di trattamento ammette eccezioni.
Inoltre, lo schema di decreto sancisce il diritto del lavoratore di pretendere, indifferentemente, dall’utilizzatore o dal somministratore il pagamento dei trattamenti retributivi e dei contributi previdenziali (art. 23, co. 3); il diritto ad essere informato sui rischi per la sicurezza e la salute, di essere addestrato all’uso delle attrezzature da lavoro e di poter godere dei sistemi di protezione predisposti in attuazione del d. lgs. n. 626/1994 (art. 23, co. 5); il diritto di accettare la proposta di assunzione dell’imprenditore cd. utilizzatore senza dovere necessariamente attendere la fine della somministrazione (art. 23, co. 8 e con l’eccezione di cui al co. 9); e, infine, su un diverso piano, assegna ai lavoratori somministrati specifici diritti di libertà e attività sindacale (art. 24).
5. La somministrazione di manodopera quale strumento di politica attiva per il lavoro: le agenzie sociali per il lavoro.
Almeno un cenno merita, inoltre, il tentativo del Governo di coinvolgere le imprese di somministrazione di manodopera nell’attuazione delle politiche attive del lavoro (art. 13). Il ragionamento è semplice: se, infatti, il profitto delle imprese di somministrazione dipende – in definitiva – dalla loro capacità di reperire occasioni di lavoro e di soddisfare la domanda proveniente dalle imprese utilizzatrici, può essere opportuno che tale attività sia indirizzata verso categorie e fasce di persone le cui prestazioni lavorative non siano normalmente richieste dalle imprese.
L’attività delle imprese di somministrazione, insomma, potrebbe costituire il veicolo mediante il quale facilitare la rioccupazione del lavoratore nonché una sua qualificazione o riqualificazione professionale; o, se si preferisce, essa può spezzare il circolo vizioso che rischia di instaurarsi tra stato di disoccupazione (o in occupazione), obsolescenza delle abilità e/o capacità lavorative e professionali acquisite e cronicizzarsi dello stato di disoccupazione (o in occupazione).
Detto questo circa l’obiettivo da perseguire, certamente condivisibile, resta da ricostruire e valutare il sistema di convenienze predisposto dal Governo per orientare l’azione delle imprese di somministrazione verso questi lavoratori svantaggiati (la cui individuazione è contenuta nell’art. 1, co. 1, lett. k) ma, soprattutto, per incentivare le imprese utilizzatrici ad avvalersi delle loro prestazioni lavorative.
Preliminarmente, però, è necessario precisare come il quadro legislativo in materia sia delineato soltanto a grandi linee, essendo rimesso alla potestà legislativa delle Regioni il completamento del quadro regolativo.
Orbene, l’incentivo maggiore per l’impresa utilizzatrice è certamente rappresentato dalla possibilità di riconoscere al lavoratore svantaggiato un trattamento economico e normativo inferiore rispetto a quello cui hanno diritto – a parità di mansioni svolte – i dipendenti dell’utilizzatore medesimo (artt. 13, co. 1, lett. a; 23, co. 2). Nei confronti dei lavoratori svantaggiati, insomma, opererà una deroga al principio di parità di trattamento che, come anticipato, è applicabile ai lavoratori interessati dalla somministrazione.
Vale peraltro la pena di precisare che il differente trattamento giuridico previsto dal legislatore con riferimento ai lavoratori svantaggiati non pare sia costituzionalmente illegittimo (pur essendo certamente inopportuno) poiché si presta ad essere giustificato in base alla diversa situazione in cui versano questi ultimi e con la necessità di garantire anche a loro quel “diritto al lavoro” solennemente sancito dall’art. 4 della Costituzione.
La deroga al principio di parità di trattamento, comunque, sarà possibile “solo in presenza di un piano individuale di inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro, con interventi formativi idonei e il coinvolgimento di un tutore con adeguate competenze e professionalità, e a fronte della assunzione da parte delle agenzie autorizzate alla somministrazione, con contratto di durata non inferiore a sei mesi” (art. 13, co. 1, lett. a). La determinazione dei contenuti minimi del piano individuale, la competenza a definirlo, la responsabilità della sua corretta esecuzione e le sanzioni in caso di inadempimento; il ruolo e le competenze del tutore, ma anche i requisiti di cui egli deve essere in possesso; il sistema dei controlli sul rispetto delle condizioni previste dalla legge, non sono definiti dal legislatore nazionale né sono da questo delineati in linea di massima. Motivo per cui tutti questi aspetti – essenziali affinché una disciplina diretta ad incrementare l’occupazione degeneri in occasione di sfruttamento della manodopera – saranno rimessi alla potestà legislativa delle singole Regioni. Circostanza rilevante, perché evidentemente in grado di innescare una deprecabile dinamica “al ribasso”: ciascuna Regione, in altri termini, potrebbe essere indotta a ridurre al minimo le garanzie di serietà dell’istituto al fine di attrarre, per quanto possibile, domanda di manodopera anche da parte di imprese ubicate in altre Regioni.
Sempre sul versante dei costi, inoltre, un’ulteriore convenienza ad occupare – mediante somministrazione – lavoratori svantaggiati è data dalla possibilità di “determinare il trattamento retributivo del lavoratore detraendo dal compenso dovuto quanto eventualmente percepito dal lavoratore medesimo a titolo di indennità di mobilità, indennità di disoccupazione o altra indennità o sussidio percepito dal lavoratore stesso” (art. 13, co. 1, lett. b). Parte del costo del lavoro, pertanto, sarebbe sostenuto dagli enti previdenziali e, in fin dei conti, dallo Stato.
La possibilità di percepire una retribuzione, in altri termini, non farebbe venire meno quello “stato di bisogno” che costituisce la giustificazione dell’intervento previdenziale (con le conseguenze facilmente immaginabili in termini di risparmio della spesa pubblica), ma semplicemente consentirebbe all’imprenditore un ulteriore risparmio sul costo del lavoro. Sotto altro profilo, è da notare come un simile assetto normativo sia potenzialmente in grado di falsare la concorrenza tra imprenditori, dato che chi ricorrerà a questa manodopera a bassissimo costo avrà un notevole abbattimento dei costi di produzione; e, proprio per questo motivo, è lecito dubitare della compatibilità della norma in discorso con l’art. 87 del Trattato istitutivo della Comunità europea (che, appunto, vieta gli “aiuti” concessi dagli Stati o mediante risorse statali allorché “falsino o minaccino di falsare la concorrenza”).
Infine, l’impresa utilizzatrice potrà beneficiare della possibilità che il lavoratore segua un percorso formativo diretto a garantire un efficace inserimento nell’impresa e i cui costi possono essere posti a carico del Fondo per la formazione finanziato con il contributo obbligatorio posto a carico delle imprese di somministrazione (art. 12). E’ chiaro, peraltro, che anche il lavoratore avrà interesse a seguire questo percorso di qualificazione o riqualificazione professionale nei limiti in cui esso sia progettato e strutturato in modo da sviluppare competenze ed abilità appetibili anche per altri datori di lavoro (e, quindi, spendibili non soltanto nell’organizzazione produttiva dell’impresa utilizzatrice).
L’attività di somministrazione di lavoro per la realizzazione di politiche attive e di workfare, comunque, non potrà essere posta in essere direttamente dalle imprese accreditate per l’attività di somministrazione se non limitatamente al periodo transitorio (ossia, fino all’entrata in vigore delle discipline regionali: art. 13, co. 2) e previa stipulazione di apposita convenzione tra una o più di esse con enti locali, centri per l’impiego o Regioni. A regime, invece, tale attività di somministrazione sarà riservata ad appositi soggetti giuridici – denominati agenzie sociali per il lavoro – costituiti dalle Regioni, dai centri per l’impiego o dagli enti locali in convenzione con le agenzie autorizzate alla somministrazione (art. 13, co. 3 e 4). Anche in questo caso, peraltro, sarà necessario attendere la legislazione regionale per valutare – sotto il profilo giuridico – la bontà del modello proposto.
Se, poi, quest’ultimo sia efficace non solo per incrementare il numero di rapporti di lavoro (magari a termine e con retribuzione insufficiente) e, quindi, il tasso di occupazione ma anche per creare occupazione stabile e adeguatamente retribuita; o se, in altra prospettiva, questo sistema non sia forse tale da permettere (eventualmente anche) l’integrazione di manodopera a basso costo proveniente dal meridione d’Italia o dalle zone di declino industriale in aree produttive in cui c’è maggiore domanda di lavoro (e in cui “le difficoltà […] nel reclutamento di manodopera (qualificata e non) […] possono anche originare pericolose tensioni salariali e favorire il diffondersi di fenomeni devianti quali […] l’immigrazione clandestina”: così il Libro Bianco, p. 22) sono questioni che eccedono i limiti della presente riflessione ma che, certamente, dovranno essere adeguatamente approfondite in futuro.