Vito Pinto – Ricercatore di Diritto del Lavoro all’Università di Bari
PARTE II
6. Il sostegno alle operazioni di outsourcing: il trasferimento di azienda e l’abrogazione del principio di parità di trattamento negli appalti introaziendali.
Lo schema di decreto legislativo prevede anche una significativa modificazione della nozione di “trasferimento di azienda” a fini giuslavoristici (art. 2112, co. 5, c.c.; art. 32, co. 1, schema d. lgs.).
Per comprendere il significato di questa novella, che segue a breve quella del 2001, è però necessaria una breve digressione.
La disciplina codicistica del trasferimento di azienda, infatti, è sempre stata teleologicamente orientata a garantire la continuità del rapporto ai lavoratori occupati in un’azienda ceduta a terzi; e ciò in applicazione del principio di inerenza del rapporto di lavoro all’azienda (e, conseguentemente, di irrilevanza dei mutamenti soggettivi riguardanti il datore di lavoro).
In un contesto in cui le tecnologie informatiche permettono inedite forme di integrazione tra cicli produttivi autonomi, però, i sempre più frequenti processi di riorganizzazione delle imprese mediante esternalizzazione di attività o parti di attività (o, se si preferisce, di concentrazione degli investimenti diretti sul cd. core business) hanno posto problemi regolativi nuovi: ad esempio, quello di una definizione di “azienda” svincolata dai rigidi criteri fissati dalla nozione commercialistica di cui all’art. 2555 c.c.; quello relativo alla possibilità per il lavoratore addetto all’azienda trasferita di rifiutare il passaggio alle dipendenze del cessionario e, quindi, di restare alle dipendenze del cedente; quello, esattamente opposto, relativo alla tutela giuridica da accordare all’interesse dell’imprenditore cedente di realizzare non solo l’operazione traslativa dell’azienda, ma anche di tutti i lavoratori ad essa addetti (evitando, in molti casi, “costose” riduzioni di personale).
Nel 2001, recependo la direttiva europea n. 98/50, il legislatore ha esteso l’ambito di applicazione della disciplina di cui all’art. 2112 c.c. includendovi anche il trasferimento di “parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata […] preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità” (art. 2112, co. 5, nell’attuale formulazione). Ma soprattutto, riconoscendo espressamente al lavoratore ceduto – “la cui condizioni di lavoro [subiscano] una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento” – la possibilità di recedere dal contratto senza preavviso e con diritto all’indennità di mancato preavviso, il legislatore pare abbia circoscritto la rilevanza del dissenso del lavoratore rispetto al trasferimento a questa ipotesi e a quegli effetti. Dopo la riforma del 2001, insomma, vi sono elementi importanti per ritenere che il lavoratore sia obbligato a passare alle dipendenze del cedente e che, quindi, il suo consenso sia irrilevante ai fini della cessione del suo contratto di lavoro.
Il combinato disposto delle due novità legislative, pertanto, ha avuto il singolare effetto di realizzare una tutela rafforzata degli interessi imprenditoriali: perché ha ampliato il campo di applicazione dell’art. 2112 c.c. e, conseguentemente, dell’obbligo per il lavoratore di passare alle dipendenze del cessionario; e perché, correlativamente, ha ridotto le ipotesi – diverse dal trasferimento medesimo – in cui il consenso del lavoratore alla cessione del contratto di lavoro è necessario ex art. 1406 c.c.
Orbene, l’art. 32, co. 1, dello schema di decreto dilata ulteriormente la fattispecie di cui all’art. 2112 intervenendo nuovamente a modificarne il quinto comma.
Anzitutto, il legislatore precisa che il “trasferimento” dell’azienda – ossia l’effetto traslativo – può essere conseguenza non solo di una “cessione contrattuale” ma anche di “fusione”: vale a dire, razionalizzando, di operazioni societarie quali la fusione – o la scissione, o il conferimento dell’azienda in società, e così via – che la nostra giurisprudenza di merito e di legittimità già riconduceva alla fattispecie di cui all’art. 2112.
Ma, soprattutto, il Governo definisce come “parte dell’azienda” qualsiasi “articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, anche se priva di beni materiali” che, tra l’altro, sia “identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”. Mutano, in sostanza, i requisiti identificativi del ramo aziendale oggetto del trasferimento.
Finora, infatti, il legislatore ha qualificato come “parte dell’azienda” solo quella “articolazione funzionalmente autonoma” che fosse oggettivamente tale prima del trasferimento e che conservasse “nel trasferimento la propria identità”. I requisiti identificativi del “ramo d’azienda”, insomma, pur di difficile individuazione pratica, conservando in qualche modo una loro oggettività sono controllabili da parte del giudice (pur al prezzo di alcune incertezze interpretative); e questo vincolo – garanzia di genuinità dell’operazione commerciale – costituisce una sorta di contropartita per l’irrilevanza giuridica del dissenso del lavoratore alla cessione del proprio contratto di lavoro.
Lo schema di d. lgs., invece, elimina del tutto il requisito della “conservazione dell’identità nel trasferimento”; e, quanto al presupposto della preesistenza dell’autonomia funzionale, precisa che lo stesso è da ritenersi sussistente allorché il cedente e il cessionario la ritengano sussistente al momento del trasferimento.
In sintesi, l’applicazione della disciplina di cui all’art. 2112 c.c. al trasferimento di un ramo d’azienda – e conseguentemente la produzione dell’effetto vincolante per i lavoratori in essa impiegati – dipende dalla decisione dei due imprenditori che vi abbiano interesse, riducendo enormemente la possibilità per il giudice di sindacare l’esistenza in concreto dell’autonomia funzionale (il controllo giudiziale, infatti, sarebbe limitato alla verifica dell’esistenza o meno di una simulazione e, quindi, di un intento fraudolento). È l’autonomia privata di cedente e cessionario, insomma, a decidere se nel caso concreto si sia in presenza di un ramo d’azienda (anche se priva di beni materiali) o se, al contrario, l’operazione sia qualificabile come mera cessione di singoli beni o contratti; cioè, in definitiva, se i lavoratori siano obbligati a passare alle dipendenze del cessionario o se, invece, sia necessario acquisire anche il loro consenso.
La norma è ancora più significativa delle scelte di politica del diritto se si tiene conto che, per effetto dell’abrogazione della legge n. 1369 del 1960, è stato altresì abrogato il principio di parità di trattamento economico e normativo previsto nell’ipotesi di appalti da eseguire all’interno di un’azienda (appalti cd. introaziendali) a beneficio dei dipendenti dell’appaltante. L’art. 3, infatti, testualmente prevede che “gli imprenditori che appaltano opere o servizi, […] da eseguirsi nell’interno delle aziende con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore, sono tenuti in solido con quest’ultimo a corrispondere ai lavoratori da esso dipendenti un trattamento minimo inderogabile retributivo e ad assicurare un trattamento normativo, non inferiore a quelli spettanti ai lavoratori da loro dipendenti” (co. 1). Vigente tale principio, evidentemente, la convenienza ad esternalizzare l’attività affidandola in appalto a terzi non può derivare dal minore costo del lavoro sostenuto dall’appaltatore.
Lo schema di decreto, però, abroga tale principio e – conseguentemente – aumenta considerevolmente la convenienza economica ad affidare in appalto a terzi attività precedentemente gestite in proprio dall’appaltante (cfr. anche la fattispecie di cui all’art. 32, co. 2); appalto interno all’azienda che – grazie alla nuova disciplina del trasferimento di ramo d’azienda – potrà essere agevolmente eseguito con l’organizzazione di lavoro che l’appaltatore avrà avuto cura di cedere all’appaltante prima della stipulazione del contratto di appalto.
In concreto, potrà darsi il caso in cui i lavoratori continuino a lavorare nel medesimo luogo e a svolgere i medesimi compiti e mansioni; ma, ciò nonostante, il loro trattamento economico e normativo subirà un peggioramento anche notevole per effetto del venire meno del principio di parità di trattamento. Né essi potranno rifiutare il passaggio all’imprenditore cessionario – che, al limite, potrebbe essere una società costituita appositamente per questa operazione – se questi, unitamente al cedente, avrà concertato l’operazione in modo da qualificarla in termini di trasferimento di ramo d’azienda.
7. La riforma del part-time.
Come anticipato, un secondo nucleo normativo di grande interesse è quello relativo alle tipologie contrattuali mediante le quali è possibile acquisire manodopera (subordinata o parasubordinata). Nell’ambito di queste discipline, in particolare, notevole importanza ai fini della presente riflessione assume la riforma del contratto di lavoro a tempo parziale poiché essa rivela – più di altre – alcuni mutamenti di politica del diritto sottesi allo schema di decreto legislativo.
La disciplina del part-time (art. 46), più precisamente, evidenzia significativamente il nuovo ruolo che il Governo intende assegnare all’autonomia collettiva nonché le limitazioni imposte (direttamente o indirettamente) all’autonomia individuale del prestatore di lavoro.
Nella disciplina tuttora in vigore, ad esempio, è molto frequente il ricorso alla tecnica della devoluzione di competenze normative all’autonomia collettiva: mediante il rinvio al contratto collettivo, in altri termini, la legge attribuisce a quest’ultimo la competenza ad integrare o modificare la disciplina posta dalla legge stessa (che, altrimenti, sarebbe inderogabile da parte dell’autonomia privata).
In questo modo, il legislatore ha tra l’altro attribuito al contratto collettivo la possibilità di autorizzare sia l’espletamento di lavoro supplementare, ossia il prolungamento della prestazione di lavoro oltre l’orario fissato nel contratto individuale. La legge, pertanto, ha affidato alle organizzazioni sindacali contrapposte – ed ai loro variabili rapporti di forza – la determinazione di un equilibrio socialmente accettabile tra esigenze di flessibilità dell’impresa e opposte esigenze (di lavoro e di vita) dei lavoratori.
La situazione, però, è destinata a mutare profondamente allorché entri in vigore lo schema di decreto legislativo. Il legislatore, più precisamente, intende limitare drasticamente l’effetto autorizzatorio e/o limitativo del potere imprenditoriale caratteristico di questa tecnica normativa.
Ciò è particolarmente vero proprio per l’effettuazione di lavoro supplementare, rispetto alla quale si stabilisce che sia necessario “il consenso del lavoratore interessato ove non prevista e regolamentata dal contratto collettivo” (art. 46, co. 1, lett. f). La disposizione può essere interpretata nel senso che il contratto collettivo non abbia più una funzione autorizzatoria dell’espletamento del lavoro supplementare (perché, in assenza di una regolamentazione collettiva, per il datore di lavoro sarà sufficiente ottenere il consenso individuale del lavoratore); ma se ne può anche dedurre che l’esistenza di una regolamentazione collettiva dell’istituto renda superfluo il consenso individuale (perché il lavoratore sarebbe obbligato a prolungare la prestazione di lavoro). Quest’ultima conclusione pare, a chi scrive, anzitutto in palese contraddizione con il diritto comune delle obbligazioni: se è vero, infatti, che l’orario di lavoro definito nel contratto individuale individua anche la quantità di energie lavorative che il lavoratore si obbliga a prestare (cioè determina quantitativamente l’obbligazione lavorativa), è evidente che il prolungamento della durata del lavoro – proprio perché incide sull’obbligazione di lavoro – non può essere in alcun modo imposta al lavoratore obbligato. Inoltre, quella conclusione appare anche costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 4, co. 2, dal momento che ogni cittadino ha il diritto di scegliere non solo il tipo di attività lavorativa, bensì anche le sue modalità (e, conseguentemente, anche la sua durata). Infine, l’assoggettamento del lavoratore al potere del datore di lavoro di chiedere prestazioni supplementari può compromettere la possibilità per il primo di svolgere un secondo lavoro e, per questa via, di ottenere una retribuzione complessivamente sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost. (secondo l’insegnamento della sentenza n. 210 del 1992 della Corte Costituzionale).
Nonostante le perplessità evidenziate, però, pare difficile dubitare dell’intenzione del Governo di limitare – per quanto possibile – l’effetto di condizionamento delle scelte imprenditoriali proprio della contrattazione collettiva e, nel medesimo tempo, di fare leva su quest’ultima per comprimere l’autonomia individuale del lavoratore subordinato.
Quanto agli altri rinvii legali al contratto collettivo, relativi a una molteplicità di materie, essi sono destinati a mutare senso e significato in conseguenza della nuova formulazione dell’art. 1, co. 3, del d. lgs. 61/2000 (art. 46, co. 1, lett. b). Finora, infatti, i contratti collettivi abilitati a modificare ed integrare la disciplina legale erano “i contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, i contratti collettivi territoriali stipulati dai medesimi sindacati ed i contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali […], ovvero con le rappresentanze sindacali unitarie, con l’assistenza dei sindacati che hanno negoziato e sottoscritto il contratto collettivo nazionale applicato” dall’impresa (corsivi di chi scrive). Essendo richiesta la stipulazione da parte dei sindacati comparativamente più rappresentativi, è evidente l’intento del legislatore di garantire il più ampio consenso possibile su regole negoziali destinate ad incidere significativamente sull’attuazione del rapporto di lavoro; ed essendo altresì prevista – con riferimento alla contrattazione aziendale – l’assistenza sindacale, è altresì chiaro l’intento del legislatore di assicurare un controllo centralizzato sull’attività negoziale eventualmente posta in essere dalle rappresentanze dei lavoratori in azienda (le quali, come è noto, non sono un’articolazione organizzativa dei medesimi sindacati).
Lo schema di decreto, invece, sostituisce la norma rinviando l’implementazione della legge ai “contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e [ai] contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali […] ovvero dalle rappresentanze sindacali unitarie” (il corsivo è sempre dello scrivente). La sostituzione della preposizione articolata “dai” con la preposizione semplice “da” suggerisce l’interpretazione che – con l’entrata in vigore del decreto – potrà modificare o integrare la disciplina legale il contratto collettivo che sia stipulato (non necessariamente da tutte, ma) anche soltanto da un’organizzazione sindacale per parte; mentre non sarà più necessaria, per i contratti aziendali, l’assistenza del sindacato esterno all’impresa. Il Governo, insomma, sembra mirare a sterilizzare il dissenso di una o più organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (perché le altre potranno comunque stipulare accordi idonei ad integrare il disposto legislativo) e, nel contempo, a favorire il più ampio decentramento negoziale (eliminando ogni rilevanza giuridica del controllo sindacale sull’azione negoziale di r.s.a. ed r.s.u.).
Quanto alle altre norme in materia di part-time, esse incidono essenzialmente sui costi – diretti ed indiretti – connessi a questa tipologia contrattuale oppure rendono più facile e spedito l’esercizio di alcuni poteri del datore di lavoro.
Tra queste, in particolare, merita di essere segnalata l’abrogazione della norma che consentiva al lavoratore di recedere dalla clausola (individuale) con cui attribuiva al datore di lavoro il potere di variare la collocazione oraria della prestazione lavorativa, obbligandosi ad eseguire la prestazione negli orari liberamente scelti dal datore di lavoro. Finora, infatti, era possibile per il lavoratore recedere dal cd. “patto di disponibilità” in presenza di determinate situazioni fissate dalla legge o dal contratto collettivo (art. 3, co. 10, d. lgs. n. 61/2000). Con l’entrata in vigore della riforma, invece, il lavoratore non potrà più recedere dalla sola clausola in discorso ma sarà costretto – qualora non possa più adempiere all’obbligo assunto – a recedere dal contratto di lavoro (art. 43, co. 1, lett. l). Circostanza che evidenzia, ancora una volta, come il Governo intenda rafforzare la posizione giuridica del datore di lavoro a scapito di quella del lavoratore subordinato.
8. La nuova disciplina del contratto di apprendistato.
Lo schema di d. lgs., inoltre, riscrive completamente la disciplina del contratto di apprendistato: più precisamente, pone le norme fondamentali di disciplina del contratto e rinvia alle legislazioni regionali per la loro attuazione, integrazione e specificazione.
L’assetto che emerge, però, è sensibilmente differente rispetto al quadro giuridico attualmente in vigore e ciò avrebbe consigliato – sotto il profilo della buona tecnica normativa – l’abrogazione espressa delle norme vigenti. Il Governo, invece, ha ritenuto opportuno limitarsi ad abrogare soltanto alcune previsioni (cfr. art. 85, co. 1, lett. b) e, in questo modo, ha affidato agli interpreti il difficile compito di coordinare la vecchia e la nuova regolamentazione (con esiti che è facile prevedere incerti e contraddittori).
Il dato fondamentale è costituito dalla diversificazione dei contratti di apprendistato in ragione degli obiettivi formativi. Al contratto di apprendistato “professionalizzante” (art. 49) – che costituisce il tipo più simile all’apprendistato attuale – si aggiungeranno il contratto di apprendistato “per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione” (art. 48) e l’apprendistato “per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione” (art. 50).
Orbene, mentre la disciplina applicabile al rapporto di lavoro è sostanzialmente analoga nei tre tipi contrattuali, diversi sono gli elementi attinenti alla formazione e, conseguentemente, alla durata del contratto ed ai lavoratori con i quali è possibile stipularlo.
L’apprendistato “per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione” è la tipologia negoziale mediante la quale il giovane di età compresa tra i quindici ed i diciotto anni può realizzare il proprio diritto/dovere all’istruzione ed alla formazione così come definito dall’art. 2, co. 1, lett. c della legge delega n. 53/2003 in materia di riordino dei sistemi di istruzione e formazione professionale. La durata del contratto non potrà essere superiore a tre anni (art. 48, co. 2) e il percorso formativo dovrà essere regolato dalle leggi regionali. In proposito, infatti, il Governo si limita a stabilire che il monte ore di formazione, esterna ed interna all’azienda, dovrà essere “congruo al conseguimento della qualifica professionale” (art. 48, co. 3, lett. f); che le Regioni dovranno fissare gli “standard generali” minimi da rispettare nella “erogazione della formazione aziendale” (lett. g); e che, infine, l’autonomia collettiva potrà determinare – nel rispetto di quegli standard ed anche “all’interno degli enti bilaterali” – ulteriori “modalità di erogazione” della formazione (ancora lett. g).
L’apprendistato professionalizzante, invece, potrà riguardare soggetti di età compresa tra i diciannove ed i ventinove anni (e che, quindi, abbiano già adempiuto all’obbligo scolastico) ed avrà quale fine specifico l’acquisizione di una qualifica professionale. In questo caso, però, la formazione – pari ad almeno 120 ore annue – potrà essere gestita dall’impresa direttamente in azienda o con modalità di formazione a distanza (art. 49, co. 4, lett. e). In realtà, non è chiaro a chi competa l’individuazione dei fabbisogni formativi; ma, di certo, la legge rinvia ai contratti collettivi per “la determinazione […] delle modalità di erogazione e della articolazione della formazione” (co. 4, lett. f), nonché della durata del contratto (co. 3).
Infine, la disciplina dell’apprendistato “per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione” è rimessa quasi completamente alle “Regioni, in accordo con le associazioni territoriali dei datori di lavoro, le Università e le altre istituzioni formative” (art. 50, co. 3). Il Governo precisa soltanto che possono essere assunti con questa tipologia negoziale i giovani di età compresa tra i diciotto e i ventinove anni (con l’unica eccezione di cui al co. 2) i quali intendano conseguire un titolo di studio di livello secondario, un titolo di studio universitario o di alta formazione nonché una specializzazione tecnica (art. 50, co. 1).
In conclusione, occorre riconoscere lo sforzo degli estensori di distinguere nettamente le tipologie negoziali destinate alla formazione del lavoratore, tra le quali sono da annoverare i contratti di apprendistato, da quelle orientate ad incentivare il primo ingresso del giovane in azienda (come nell’ipotesi del contratto di inserimento: v. § seguente). Meno opportuna – e comunque problematica sotto il profilo costituzionale – è, invece, la scelta di delegare alle Regioni la regolamentazione di questi rapporti di lavoro.
Sta di fatto che, non essendo disciplinati importanti tasselli della riforma, un giudizio complessivo è tuttora prematuro. Ma è da valutare con favore la circostanza che l’assetto legislativo prefigurato dal Governo consenta un coinvolgimento delle organizzazioni sindacali nella programmazione e nella gestione della formazione interna ed esterna all’azienda. Se da un lato, infatti, soltanto la contrattazione collettiva è in grado di specializzare i contenuti formativi in ragione dei diversi contesti produttivi ed organizzativi (ed è questo, a parere di chi scrive, il motivo determinante di quel coinvolgimento), dall’altro è anche vero che – approfittando di questo ruolo – dovrebbe essere possibile istituire forme di controllo sindacale dirette a garantire la qualità degli interventi formativi e ad evitare abusi.
9. La diversificazione delle tipologie contrattuali: il contratto di inserimento.
Nell’opinione pubblica, tuttavia, la cd. riforma Biagi è nota soprattutto per l’introduzione e la regolamentazione di alcune nuove tipologie contrattuali quali il contratto di inserimento, il contratto a prestazioni ripartite (o job-sharing), il contratto di lavoro intermittente e – nell’area del lavoro autonomo – le collaborazioni coordinate e continuative e così via.
La ragione di questa estrema diversificazione tipologica, e della conseguente moltiplicazione delle regolamentazioni, può essere individuata nell’intento del legislatore di mettere a disposizione dell’imprenditore tanti tipi negoziali quante sono le modalità economicamente ed organizzativamente convenienti di alienazione del lavoro. Il Governo, insomma, tende a rispondere a quelle “impellenti domande di trasformazione dei moduli di utilizzazione del lavoro” provenienti dalle imprese e già rilevate – e rivelate – dal prof. Biagi nella relazione presentata al Comitato scientifico di Confindustria nell’aprile 2001 (v. in RIDL, 2001, I, pp. 257 ss. e qui p. 274).
Una sintetica analisi dei tratti essenziali delle discipline in discorso – che significativamente non sono applicabili alle pubbliche amministrazioni (come previsto dall’art. 6 della legge delega n. 30/2003) – può chiarire il senso delle affermazioni che precedono.
Iniziando dal contratto di inserimento, esso può essere definito come il “contratto di lavoro diretto a realizzare, mediante un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore a un determinato contesto lavorativo, l’inserimento o il reinserimento” in un’organizzazione di lavoro (art. 55, co. 1; il legislatore, per il vero, scrive di inserimento o reinserimento “nel mercato del lavoro”: ma la disciplina del contratto evidenzia come tale richiamo sia del tutto ideologico ed inappropriato).
Fondamentale, pertanto, risulta essere il “progetto individuale di inserimento”: un progetto che è definito consensualmente tra datore di lavoro e lavoratore (e che, in pratica, sarà imposto dal primo al secondo, se non altro per una questione di “asimmetria informativa” rispetto al contesto organizzativo di inserimento); e che dovrà essere conforme agli “orientamenti, linee-guida e codici di comportamento” eventualmente predefiniti dall’imprenditore medesimo seguendo le modalità previste dai “contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative […] anche all’interno degli enti bilaterali” (art. 56, co. 1 e 2). Orientamenti, linee-guida e codici di comportamento che – salvo si ritengano qualificabili come proposte contrattuali irrevocabili ex art. 1329 c.c. – non vincolano in alcun modo l’imprenditore; e che in ogni caso, sul piano dei contenuti, potrebbero essere formulati in modo talmente generico da risultare perfettamente inutili (nella prospettiva della tutela del lavoratore). Un codice di condotta formulato in modo ampio e generico, del resto, paralizza in concreto anche qualsiasi controllo sindacale sulla sua attuazione: all’imprenditore accorto, infatti, non mancheranno giustificazioni e vie di fuga.
Il Governo, insomma, pare non considerare che l’imprenditore – individuale o collettivo – è pur sempre sollecitato ad agire dalla prospettiva di un arricchimento; e che qualsiasi sistema di mercato che voglia davvero restare tale deve essere in grado di valorizzare, ma la tempo stesso di tenere a freno, gli animal spirits che vi agiscono.
Nel piano individuale di inserimento, ad ogni modo, la formazione del lavoratore è meramente eventuale (art. 56, co. 4) né il legislatore si è preoccupato di fissare – anche solo indirettamente – uno standard minimo di qualità delle “misure di inserimento” ivi previste (cosa che sarebbe stata necessaria soprattutto in considerazione della durata massima, decisamente abnorme, di questi contratti). Inoltre, l’unica sanzione prevista per il mancato rispetto del piano di inserimento è quella – meramente patrimoniale – del pagamento di una maggiorazione contributiva (art. 56, co. 5). Ma anche in questo caso, a ben vedere, la situazione è tale da favorire abusi: da un lato, infatti, la sanzione è applicabile solo in presenza di “gravi inadempienze”; dall’altro, il legislatore prevede che siano raddoppiati – a titolo di sanzione – i contributi calcolati in misura “agevolata” (e non piena).
In conclusione, è facile prevedere un largo ricorso a questa fattispecie tenuto conto che essa costituisce un modo per assumere a termine – fino a trentasei mesi – categorie di lavoratori che, per vari motivi, non hanno forza negoziale; per retribuirli in misura inferiore agli altri (in conseguenza della possibilità di sottoinquadramento di cui all’art. 60, co. 1); godendo altresì degli incentivi contributivi attualmente previsti per il contratto di formazione e lavoro e senza che i lavoratori così inseriti nell’impresa siano computabili nella forza lavoro occupata ai fini dell’applicazione di istituti giuridici di origine legale o contrattuale (art. 60, rispettivamente co. 3 e 2).
Gli unici vincoli imposti al datore di lavoro consistono nella stipulazione in forma scritta del contratto (art. 57) e nella necessità, per chi intenda stipulare nuovi contratti di inserimento, di trasformare in contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato almeno il sessanta per cento dei contratti di inserimento i cui effetti siano cessati nei diciotto mesi precedenti (art. 55, co. 3). Vincolo, quest’ultimo, che tutt’al più costringerà l’imprenditore ad un’attenta pianificazione temporale delle assunzioni con contratto di inserimento: sarà sufficiente, infatti, far decorrere diciotto mesi dalla scadenza dell’ultimo contratto di reinserimento per poter nuovamente ricorrere liberamente a questa tipologia contrattuale.