Il decreto Cura Italia non impedisce il licenziamento per superamento del periodo di comporto. Lo ha affermato il presidente della sezione lavoro del tribunale di Milano. In particolare un dipendente, operante nel settore della logistica in forza di contratto a tempo pieno e indeterminato con qualifica di operaio, ha impugnato il licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto, avendo superato i limiti del contratto collettivo che impongono all’azienda di conservare il posto di lavoro per assenze dovute a malattia. I lavoratori di quel settore non più in prova hanno diritto alla conservazione del posto per 245 giorni di calendario se aventi anzianità di servizio non superiore a cinque anni. Il periodo di comporto spettante era stato superato.
Per sostenere la illegittimità/nullità del licenziamento il dipendente ha lamentato che esso è stato intimato nel periodo vietato dal decreto c.d. cura Italia, in violazione del divieto previsto dall’ art.46 del DL 18/20 convertito. con modificazioni dalla L. 27/20. Effettivamente questo decreto-legge ha disposto il divieto di avvio delle procedure di licenziamento collettivo e la sospensione delle procedure già iniziate, nonché il divieto di recesso per giustificato motivo oggettivo. Il termine iniziale è stato oggetto di successive proroghe ed è vigente fino alla fine del mese di giugno 2021. Nella difesa del dipendente, il licenziamento per superamento del periodo di comporto rientrerebbe nella figura più generale del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il presidente del tribunale sezione lavoro di Milano ha rigettato questa ricostruzione. Per il Presidente della sezione “Il licenziamento per superamento del periodo di comporto, sebbene presenti caratteri analoghi, è dotato di una disciplina specifica distinta da quella del licenziamento per motivo oggettivo. E difatti, una volta che il periodo di comporto sia trascorso, tale circostanza diviene di per sé sufficiente a legittimare il licenziamento, non essendo richiesta un’accertata incompatibilità fra le prolungate assenze e l’assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell’impresa, potendosi intimare il licenziamento anche nei casi in cui il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali.”
Come hanno chiarito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza 22.5.2018 n. 12568, nell’art. 2110, comma 2, c.c. si rinviene «un’astratta predeterminazione del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale».
La diversità ontologica tra licenziamento per superamento del comporto e licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stata ribadita ancora di recente dalla Corte di Cassazione, che ha affermato (Cass. n. 31763 del 07/12/2018, Cass. n. 1404 del 31/01/2012) che “Le regole dettate dall’art. 2110 cod. civ. per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore prevalgono, in quanto speciali, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali che su quella degli articoli 1256 e 1463 e 1464 cod. civ., e si sostanziano nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso; le stesse regole hanno quindi la funzione di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l’occupazione), riversando sull’imprenditore, in parte ed entro un determinato tempo, il rischio della malattia del dipendente. Ne deriva che il superamento del periodo di comporto è condizione sufficiente a legittimare il recesso, e pertanto non è necessaria, nel caso, la prova del giustificato motivo oggettivo né dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa né quella della correlativa impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse”.
Neppure è possibile, in assenza di un richiamo specifico all’art.2110 c.c., interpretare estensivamente l’art.46 d.l. n.18/2020 fino a ricomprendevi tale fattispecie. Infatti, la ratio del divieto di licenziamento introdotto dal decreto c.d. “Cura Italia”, è stata quella di «contenere gli effetti negativi che l’emergenza epidemiologica COVID-19 sta producendo sul tessuto socio-economico nazionale» (così testualmente l’epigrafe al decreto legge) e quindi di mantenere i livelli occupazionali in presenza di una situazione di crisi eccezionale, causata da fattori diversi ed estranei rispetto alle normali dinamiche del mercato del lavoro. Tale esigenza non si rinviene nell’ipotesi di recesso per superamento del comporto, circostanza che potrebbe verificarsi anche prescindendo dall’epidemia di Covid-19.
*Sentenza n. 314/2021 pubbl. il 04/03/2021 del Tribunale di Milano presidente Dott.ssa Paola Ghinoy
Biagio Cartillone