Il Governo del Grande Cambiamento sembra piuttosto il Governo del Grande Balzo all’Indietro. E il punto di atterraggio non è casuale: sono gli anni ’80. Salvini e Di Majo erano all’asilo, ma chi c’era può testimoniare che non è un periodo che viene voglia di rimpiangere. Nel caso specifico, sono gli anni in cui è avvenuta la Grande (questa sì) Frattura. Prima, l’Italia era un paese con gravi problemi economici, ma con le finanze più o meno in ordine, come tanti altri. È negli anni ’80, invece, che esplode il ricorso al debito, le casse pubbliche si svuotano e il Tesoro accumula una esposizione che, in rapporto all’economia del paese, è seconda al mondo solo al Giappone. I governi Craxi di allora si finanziano, scaricando il peso sulle generazioni future. Cioè noi, Salvini, Di Majo e i loro sogni inclusi.
Da allora, il debito ha continuato a lievitare, ma, di fatto, il paese stringe la cinghia e vive di austerità dalle manovre lacrime e sangue di Amato e Ciampi in poi, senza mai riuscire, in oltre un quarto di secolo, a liberarsi dell’enorme zavorra accumulata negli anni ’80 e che, fra il peso degli interessi e gli scivoloni di Berlusconi e Tremonti è arrivata ad una montagna di 2.300 miliardi di euro e costringe il Tesoro, ogni anno, a trovare sul mercato 350 miliardi di euro di nuovi prestiti. Senza gli anni ’80, l’Italia sarebbe forse un paese normale. Da un nuovo giro in quegli anni, può uscire irriconoscibile.
Dovrebbe essere una sorta di memento, bene in vista sulla scrivania del prossimo presidente del Consiglio. Un monito che riassume e travalica i singoli provvedimenti del contratto su cui si fonda il governo pentaleghista che possono piacere o meno. Il problema, però, è lo scenario economico complessivo che vanno a comporre, i passaggi inevitabili che comportano, le ricette fuori bersaglio che suggeriscono.
Facciamo finta di poter ignorare che il programma di governo, se attuato, sarebbe indigeribile in Europa. È anche possibile che, battendo i pugni sul tavolo come sogna Salvini, Bruxelles accetti che il disavanzo pubblico, previsto nell’1,5 per cento del Pil, arrivi al 3 per cento, il vecchio limite di Maastricht, rinunciando quindi all’ambizione – discutibile, del resto – di arrivare gradualmente al pareggio di bilancio. Ma un 1,5 per cento di Pil in più di deficit significa un margine di manovra di non più di 20 miliardi di euro (più o meno quanti ne servirebbero ad un governo standard, non del Cambiamento, per la manovra 2019). La lista della spesa del governo pentaleghista oscilla, invece, secondo le valutazioni, fra i 110 e i 170 miliardi di euro. Ovvero un deficit del 7-10 per cento del Pil. Qualcuno pensa che questo sfondamento avverrebbe nell’indifferenza generale? Il Tesoro prevede di spendere 65 miliardi di euro, quest’anno, per pagare gli interessi sul debito pubblico. I fondi stranieri detengono oltre 600 miliardi di euro del nostro debito. Che succede se si spaventano e decidono di vendere in massa? Chi compra e a che tasso di interesse? Invece del 2 per cento attuale, il 4? Sono 6 miliardi di euro in più da trovare, sull’unghia, solo per il primo anno. Il 6 per cento? I miliardi sono diventati 12. Salvini pensa che la Bce interverrebbe a frenare la fuga, senza commissariare il governo di Roma? Improbabile. Allora, in fondo a questa strada c’è – incorporato, si direbbe, nel programma – il default e il precipitare (che è diverso da un’uscita ordinata, pure anch’essa assai problematica) fuori dall’euro.
Inevitabile? Niente affatto, dicono gli esegeti del governo. Evocando, ancora, gli anni ’80. Perché questo sfondamento del disavanzo rispetto al Pil sarebbe tamponato dall’aumento del Pil, scatenato dalla riduzione delle tasse. Per i cultori della materia, è la riesumazione della curva di Laffer, ovvero la tesi che, riducendo le tasse, l’economia comincia a galoppare, quanto basta a recuperare (con l’aumento dei redditi) quanto perso abbassando le aliquote. Era il cavallo di battaglia dell’economia reaganiana. L’esperienza storica ha dimostrato che la curva di Laffer non decolla mai: l’economia americana ha ripresa a marciare solo dieci anni dopo Reagan, quando Clinton ha alzato le tasse. Lo scenario realistico, quindi, è un debito galoppante, con tassi di interesse sempre più alti, che inevitabilmente, si rispecchierebbero in quelli dell’economia interna (per investire in Italia, voglio almeno quanto prenderei con i Bot). Se ci lasciassero restare nell’euro, significherebbe deflazione selvaggia, con l’economia strangolata dai tassi. Se ne uscissimo, sarebbe svalutazione della nuova lira e inflazione selvaggia. Qualcuno ha ipotizzato un’inflazione al 20 per cento, i livelli dei primi anni ’80.
Non è uno scenario fantascientifico. L’unico sbocco coerente del programma pentaleghista è il recupero della sovranità monetaria, ovvero la svalutazione della moneta. Solo così diventa possibile spendere in tasse e sussidi e rilanciare le esportazioni. Vedi caso, è la ricetta ripetutamente applicata negli anni ’80. Non funziona. L’Italia esporta molto, ma importa anche molto. Quello che la svalutazione fa guadagnare, abbassando il prezzo delle esportazioni, fa perdere alzando quello delle importazioni (il petrolio, ad esempio). Il risultato è che bisogna fare un’altra svalutazione, in una spirale infinita. Già visto: a venire mangiati sono salari e pensioni.
C’è un odore un po’ stantio, da anni ’80, anche nell’idea di politica economica che c’è dietro a tutto questo. Rilanciare le esportazioni, limandone il prezzo, è un’idea da anni ’80: ma allora non c’erano i cinesi. La concorrenza sui mercati internazionali è fatta, oggi, di innovazione e qualità. A prodotto uguale, il prezzo cinese è sistematicamente più basso. E anche il passo asfittico della nostra economia è un problema di offerta, non di domanda. Favorire i consumi, abbassando le tasse (ammesso che funzioni) era la leva giusta tre anni fa, in piena recessione, non oggi. Il problema cruciale dell’economia italiana è di investimenti, di una produttività che è ferma dagli anni ’90, di un arcipelago di imprese moderne e innovative che non supera il 40 per cento del totale. Per smuovere l’altro 60 per cento servirebbe una riforma che smantellasse il groviglio di burocrazia che le soffoca piuttosto che una flat tax che metterà soldi nelle tasche di cittadini benestanti, i quali, se guarderanno al loro interesse, si affretteranno a metterli al riparo all’estero, prima che il default o l’uscita dall’euro glieli tosi. Rilanciare l’economia italiana è opera oscura, faticosa, quotidiana. La scorciatoia proposta in questi giorni ha l’aria di un viottolo che si inoltra nella nebbia. Se lo conosci, lo eviti.
Maurizio Ricci