1. Il contesto normativo
L’Italia, negli oltre 60 anni di Repubblica parlamentare, ha vissuto due fasi storiche: la fase del “costituzionalismo sociale” e quella del “costituzionalismo ordo-liberale”. La prima va dal 1948, anno di entrata in vigore della Costituzione, al 1973, anno della legge di riforma del processo del lavoro. In quel periodo vennero approvate poche leggi che miravano a 3 obiettivi fondamentali: 1) contrastare la frammentazione dell’organizzazione d’impresa per garantire l’uniformità di regole sul lavoro ed evitare la concorrenza fra regimi giuridici; 2) vietare l’abuso o l’arbitrio della libertà d’impresa nei licenziamenti; 3) promuovere e sostenere la presenza del sindacato nell’impresa.
Sullo sfondo di questa legislazione c’è la Costituzione repubblicana. Due norme su tutte rappresentano l’architrave di quella filosofia del diritto: il diritto individuale di sciopero e il diritto del lavoratore a una retribuzione sufficiente e proporzionata. Due norme che rappresentano la funzione sociale del diritto del lavoro di questa fase: da un lato, redistribuire la ricchezza prodotta in una prospettiva di solidarietà generale (la norma sulla retribuzione), dall’altro lato, riconoscere il Lavoro come soggetto sociale capace di partecipare alla vita democratica attraverso il conflitto (la norma sullo sciopero).
Nella seconda metà degli anni ’70, in Italia, inizia una legislazione “eccezionale” dettata soprattutto dalle crisi aziendali e dai licenziamenti collettivi. Contemporaneamente, inizia un ciclo politico-sindacale nel quale vengono stipulati Accordi interprofessionali finalizzati alla lotta all’inflazione attraverso la riduzione della dinamica salariale. Inoltre inizia una legislazione sulla flessibilità dei rapporti di lavoro: flessibilità numerica e funzionale. Tale ciclo si conclude in due leggi simboliche: quella dell’art. 8 della legge 148 del 2011 sui contratti aziendali in deroga e il decreto 23 del 2015 sul c.d. contratto a tutele crescenti.
2. La proposta della CGIL
In questo contesto è maturata la scelta della CGIL di proporre un Nuovo Statuto dei Diritti delle Lavoratrici e dei Lavoratori (Carta dei Diritti universali delle lavoratrici e dei lavoratori). Il titolo è intrigante per la dottrina giuridica e per la cultura politica e sindacale dell’Italia perché rimanda allo Statuto dei Lavoratori del 1970. La proposta, però, assomiglia più a un Codice del Lavoro trattandosi di una proposta abbastanza organica e strutturata, che regola diversi istituti. Infatti è composta da 97 articoli, suddivisi in 4 parti: la prima dedicata ai diritti fondamentali di ogni tipo di lavoratore; la seconda ai diritti sindacali; la terza ai contratti di lavoro della flessibilità e a qualche aspetto dell’organizzazione del lavoro; la quarta alla tutela processuale.
Data l’ampiezza non posso descriverla dettagliatamente in questa sede; però posso utilizzare tre chiavi di lettura per leggerla, tenendo conto delle proposte ivi contenute: 1) contrastare la frammentazione della catena del valore, per riunificare il lavoro; 2) contrastare l’arbitrio della libertà d’impresa, per tutelare la dignità del lavoro; 3) contrastare l’istituzionalismo neo-feudale, per ristrutturare la democrazia e la solidarietà.
2.1. Contro la frammentazione della catena del valore; per riunificare il Lavoro
Un carattere dell’ordinamento giuridico del lavoro nell’età del costituzionalismo neoliberale è la frammentazione giuridica della catena produttiva del valore, sia sul lato dell’impresa sia sul lato del lavoro. La proposta CGIL, invece, ha come obiettivo riunificare i soggetti sotto il profilo della imputazione giuridica: riunificare “giuridicamente” il lavoro, come fattore di produzione; riunificare “giuridicamente” l’impresa, come organizzazione.
Per quanto riguarda il lavoro, la proposta sembra ispirata dall’art. 35 Cost., nel quale si stabilisce che la Repubblica deve tutelare il lavoro «in tutte le sue forme». L’Italia ha subito un processo abnorme di crescita abusiva di lavoro “non subordinato” – le collaborazioni coordinate e continuative, il lavoro in associazione – allo scopo prevalente di sottrarsi ai vincoli e ai costi del lavoro subordinato. Per questa ragione nel Nuovo Statuto, tutta la Prima Parte è dedicata ad assicurare un catalogo di diritti fondamentali «a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori titolari di contratti di lavoro subordinato e di lavoro autonomo – quindi anche collaborazioni coordinate e continuative, anche occasionali – e alle lavoratrici e lavoratori che svolgono una prestazione di lavoro sulla base di un contratto di tipo associativo».
A tutte queste forme giuridiche di lavoro viene assicurato il diritto a un compenso equo e proporzionato al lavoro svolto (art. 5), il diritto al riposo giornaliero e settimanale (art. 8), il diritto alla conciliazione dei tempi per esigenze collegate alla funzione di genitori di figli minori (art. 9), il diritto a non essere controllati a distanza durante lo svolgimento del lavoro mediante strumenti elettronici (art. 12), diritto alle informazioni sulle scelte aziendali quando esse sono rilevanti per lo svolgimento del proprio lavoro (art. 14), diritto alla tutela del proprio sapere professionale e alla formazione permanente (art. 17), diritto alla giustificazione del licenziamento (art. 19), diritto alla protezione sociale in caso di perdita del lavoro (art. 20).
È opportuno mettere in evidenza il fatto che il lavoro autonomo economicamente dipendente vuole essere condotto nell’area della protezione sociale, a partire dalla definizione della nozione di «dipendenza economica». Per il Nuovo Statuto, c’è «dipendenza economica» quando l’opera o il servizio ha una durata superiore a sei mesi in un anno e il compenso economico costituisce almeno il 75% dei compensi percepiti nell’anno (art. 89). Non si negano le differenze di organizzazione fra lavoro subordinato e lavoro autonomo, ma si istituisce un regime di protezione sociale della persona che lavora in condizione di dipendenza economica.
Nell’ottica della riunificazione dobbiamo leggere anche le norme sulla parità di trattamento.
Il Nuovo Statuto propone che la tutela dal licenziamento individuale debba essere uguale per tutti i lavoratori, anche a prescindere dalla dimensione aziendale (art. 83). Si prevede l’integrale parità di trattamento dei lavoratori somministrati rispetto ai lavoratori dipendenti dell’impresa che li utilizza (art. 65). Allo stesso modo, «ogni qualvolta un’impresa affidi ad altra impresa la realizzazione di una fase del proprio ciclo produttivo, mediante un contratto di appalto, e l’appaltatore operi in condizione di dipendenza economica nei confronti dell’appaltante, entrambe le imprese sono obbligate a riconoscere ai lavoratori dell’appaltatore parità di trattamento con quelli dei lavoratori dell’appaltante».
La parità di trattamento fra lavoratori negli appalti ci permette di cogliere l’altra prospettiva della riunificazione giuridica, cioè quella dell’impresa affinché la forma organizzativa del ciclo produttivo e la forma giuridica dell’organizzazione del lavoro coincidano. Ci sono norme che vietano l’intermediazione nei rapporti di lavoro (art. 88), che obbligano alla parità di trattamento e alla responsabilità solidale negli appalti (art. 90), che obbligano le imprese che subentrano in un appalto ad assumere tutti i lavoratori precedentemente occupati in quel servizio in appalto e, infine, che vietano la possibilità di mettere in atto cessioni non genuine di parti di aziende finalizzate, invece, a occultare operazioni di riduzione di personale (art. 92).
Al medesimo fine, il Nuovo Statuto ripristina il principio della temporaneità della ragione che giustifica l’assunzione con un contratto a tempo determinato, in linea con un principio più volte ribadito dalla Corte di Giustizia.
2.2. Contro l’arbitrio della libertà d’impresa, per la dignità del lavoro
La seconda chiave di lettura consiste nel limitare la libertà dell’impresa per tutelare la dignità dei lavoratori. Il Nuovo Statuto garantisce ai lavoratori autonomi alcuni dei diritti fondamentali dei lavoratori subordinati: per esempio, la libertà di pensiero e di critica (art. 6), il divieto di molestie e di vessazioni (art. 7), i principi di parità di trattamento e di non discriminazione (artt. 10 e 11), limiti all’uso di strumenti di controllo a distanza dei lavoratori (art. 12).
Per altro verso – direi finalmente – il sindacato italiano rivendica l’applicazione di un principio fondamentale riguardo all’orario di lavoro. Attuando la Direttiva dell’UE sull’orario di lavoro, la legge italiana del 2003 non prescrive direttamente la durata massima della giornata lavorativa ma la si desume dalla norma sul diritto al riposo giornaliero, cioè 13 ore al giorno. Il Nuovo Statuto intende riportare il limite massimo complessivo della giornata di lavoro a 10 ore.
Una delle norme più importanti del Nuovo Statuto riguarda l’obbligo di giustificare il licenziamento anche nei rapporti di lavoro autonomo e la reintroduzione della reintegrazione nel posto di lavoro dei lavoratori licenziati senza giustificazione (art. 83).
È ben noto che dal 2015, l’Italia ha abrogato la reintegrazione per tutti i contratti di lavoro subordinato stipulati a partire da marzo 2015, garantendola soltanto per i licenziamenti qualificati come «nulli»; in tutti gli altri casi, il Giudice dovrà soltanto stabilire l’ammontare del risarcimento del danno, non superiore a 24 retribuzioni mensili. Dunque, obbedendo alle Raccomandazioni del Consiglio Europeo, al Libro verde della Commissione Europea del 2006, alla lettera della Banca Centrale Europea del 2011,«l’ultimo tabù» del diritto del lavoro italiano, quello figlio del “costituzionalismo sociale”, è abrogato. Poiché la reintegrazione nel posto di lavoro non è altro che l’applicazione di un principio generale del diritto civile, secondo il quale un negozio giuridico illegittimo non può produrre effetti, la CGIL la rispristina come architrave del Nuovo Statuto, pur consentendo una residuale ipotesi in cui il Giudice può trasformare la reintegrazione in risarcimento. In questa prospettiva, la reintegrazione protegge i lavoratori dall’arbitrio dell’impresa, costringe la libertà d’impresa a non contrastare con la libertà e la dignità del lavoro, com’è scritto nell’art. 41, comma 2, Cost.
Per questa ragione il Nuovo Statuto propone di superare l’orientamento della giurisprudenza sui licenziamenti collettivi secondo il quale il controllo di legittimità sui licenziamenti deve riguardare soltanto la regolarità delle procedure e non i motivi del licenziamento. La proposta di legge prevede la sanzione della reintegrazione anche nel caso in cui il motivo posto a fondamento del licenziamento collettivo non risponda ai criteri di legge (cioè non vi sia una ragione economica che costringa a ridurre il personale) (art. 87).
2.3. Contro l’aziendalizzazione, per la partecipazione
La terza chiave di lettura riguarda la dimensione collettiva del diritto del lavoro.
Viviamo nell’età dell’«aziendalizzazione» del diritto del lavoro e delle relazioni industriali; dell’ordine giuridico per il quale la Razionalità Aziendale è fonte primaria del diritto; l’Impresa è l’Istituzione cardine dell’economia post-moderna (della post-democrazia, come ha sostenuto Colin Crouch). Questo modello si riflette nella decentralizzazione della contrattazione collettiva, attribuendo un ruolo prioritario alla contrattazione aziendale. Rompere il monopolio regolativo del contratto nazionale senza regolare per legge il sistema delle fonti, sta provocando la frammentazione del sistema e un processo di dumping contrattuale fra le imprese.
Il Nuovo Statuto (art. 38) ripristina un rapporto gerarchico fra contratto nazionale e contratto decentrato – cioè ripristina la superiorità gerarchica del contratto nazionale su quello aziendale – e attua l’art. 39 Cost. per attribuire efficacia generale ai contratti collettivi.
Il Nuovo Statuto ambisce anche a ricostituire la natura “democratica” del diritto del lavoro. La democrazia intesa innanzitutto come “suffragio universale”, grazie al quale tutti i lavoratori devono essere coinvolti direttamente nella contrattazione mediante il referendum su ogni contratto collettivo, prima di essere sottoscritto (art. 37). Di fronte alla crisi della rappresentatività sindacale, rafforzare la democrazia diretta è una soluzione necessaria (anche se non sufficiente) a ricostituire la partecipazione.
Il Nuovo Statuto, però, si pone anche l’obiettivo di irrobustire la democrazia industriale mediante il rafforzamento del ruolo del sindacato: si prevede di rafforzare gli obblighi di contrattazione e di informazione a carico delle imprese, nonché di modificare la composizione di alcuni organi societari delle imprese (per esempio, il consiglio di sorveglianza) per permettere a rappresentanti dei sindacati di partecipare a tutte le riunioni dell’Organo societario.
Insomma, sotto questo aspetto, si tratta di una proposta che mostra l’evoluzione della cultura sindacale dal momento che la CGIL vuole prendersi la responsabilità di contribuire allo sviluppo della capacità produttiva delle imprese, ma attraverso un controllo sull’organizzazione del lavoro di qualità, una organizzazione produttiva “decente” prima che un lavoro “decente”. Per fare questo, occorre che l’impresa riconosca la soggettività del sindacato come “attore nell’impresa” e non solo come “fattore produttivo”.
3. La proposta CGIL di Nuovo Statuto e il documento CGIL CISL UIL su relazioni industriali
Presentate queste brevi note sulla proposta di Nuovo Statuto della CGIL, non si può fare a meno di accennare al documento unitario di CGIL CISL e UIL sulle relazioni industriali, quantomeno per verificare se le due proposizioni hanno punti di condivisione. Ebbene, senza entrare nel merito di un’analisi approfondita del documento unitario, mi sembra di poter dire che gran parte delle proposte articolate dalla CGIL trovano rispondenza nel documento unitario.
Seguendo le stesse chiavi di lettura che ho proposto in precedenza, riguardo al tema della riunificazione del lavoro, nel documento unitario si dichiara la volontà «di esercitare la rappresentanza e la tutela di tutte le forme contrattuali presenti nello stesso luogo di lavoro», con un chiaro riferimento alla questione della rappresentanza e della contrattazione del lavoro non subordinato. Allo stesso modo, come nell’articolato CGIL vi sono diverse norme sul governo dei processi di disarticolazione contrattuale nell’organizzazione dell’impresa, a cominciare dal sistema degli appalti, così nel documento si propone «l’applicazione del contratto prevalente, la clausola sociale, la responsabilità solidale fra appaltante e appaltatore».
Parte significativa della proposta CGIL è l’attuazione dell’art. 39 Cost. con la registrazione delle associazioni sindacali rappresentative in funzione dell’efficacia generale dei contratti collettivi, ugualmente proposti nel documento unitario, a partire dall’attuazione legislativa del Testo Unico del 2014; così come in entrambi i casi viene posta la questione della misurazione della rappresentatività delle associazioni d’impresa.
Quanto poi alla contrattazione decentrata, è comune la volontà di ricondurre al governo nazionale la contrattazione di secondo livello, pur prevedendo una chiara funzione normativa da attribuire ai livelli decentrati più appropriati; non a caso, nel documento unitario si fa specifico riferimento alla contrattazione di sito, di filiera, di distretto o di rete, che nella proposta CGIL viene esplicitamente declinata anche prevedendo una specifica forma di Rappresentanza sindacale territoriale, alternativa alla rappresentanza sindacale nelle aziende.
Infine, il tema della partecipazione trova una chiara affermazione nel documento unitario, così come – almeno in parte – nella proposta CGIL riguardo ai diritti di informazione e consultazione, nonché alla partecipazione ai consigli di sorveglianza delle imprese di rilevanza strategica con partecipazione pubblica.
Insomma, quale che sia l’opinione che se ne può avere nel merito dei documenti, quel che è certo è che il movimento sindacale confederale italiano sta provando a dare un contributo all’evoluzione del sistema giuridico del lavoro e alle relazioni industriali italiane.
Vincenzo Bavaro