Ora che, assicurano un po’ tutti, dal governo alle istituzioni internazionali, si intravede la ripresa, si può cominciare a fare la conta delle vittime, delle perdite, del dare-avere. La doppia crisi scatenata dal collasso finanziario del 2008 e riavvitata nel 2011 – in Europa – dagli errori della Bce pre-Draghi è stata durissima. Tutti i paesi hanno scontato un crollo degli occupati e delle ore lavorate pro capite, che si è tradotto in una caduta del totale di ore lavorate. Le imprese, però, non sono state asfaltate: la produttività, infatti, è cresciuta. I dati dicono che l’occupazione è diminuita ma, sia in Europa che in America, il prodotto per ora lavorata è aumentato. Poco in Spagna e in Italia. Più negli Usa che nel grosso dei paesi europei, con l’eccezione di Svezia, Irlanda e Repubblica Ceca.
Ma chi ha incassato i benefici di questo aumento di produttività? I dati raccolti da un think tank europeo, Bruegel, in un ponderoso volume sul rilancio dell’industria manifatturiera, non lasciano dubbi. Il costo della crisi lo hanno assorbito soprattutto i lavoratori, anche quelli che il posto lo hanno mantenuto, consentendo alle imprese di attutire l’impatto della crisi. A poco è servito che, nella tempesta della crisi, la composizione della forza lavoro sia scivolata verso qualifiche più alte. Un fenomeno visibile in tutta Europa e, sia pure in misura minima, anche in Italia.
In parole più semplici, neppure un contributo più qualificato da parte degli addetti ha potuto impedire l’erosione delle buste paga. Una erosione relativa. Le ore lavorate diminuivano, ma i compensi orari, in termini reali, al netto, cioè, dell’inflazione, sono in effetti cresciuti. Tuttavia, il prodotto di quell’ora lavorata è salito assai di più e assai più in fretta. Il divario è macroscopico negli Stati Uniti, dove la crescita del prodotto per ora lavorata è il quadruplo dell’aumento del compenso per quell’ora di lavoro.
Ma il gap è sensibile ovunque. In Irlanda, l’aumento medio annuo della produttività (misurata come prodotto per ora lavorata) è tre volte quello della relativa busta paga. In Belgio, in Francia lo scarto è circa due a uno: due euro di prodotto in più, per uno di salario. Va peggio in Gran Bretagna. Ma anche in Germania, dove la riduzione di orari e occupazione è assai limitata, come, del resto, in una economia strettamente collegata a quella tedesca, come la Repubblica Ceca, il prodotto orario è cresciuto mediamente di oltre il 2 per cento l’anno, ma i compensi reali non hanno raggiunto lo 0,7 per cento. Un dato anche più significativo del potere contrattuale delle imprese tedesche, che potevano valersi alla grande delle imprese ceche, spesso controllate direttamente o comunque strettamente collegate, dove il divario fra prodotto e salario era più ampio anche di quello americano.
Anche i paesi nordici, Svezia, Danimarca, Finlandia hanno visto peggiorare sensibilmente la situazione dei lavoratori. Il paradosso è l’Italia, il paese che mostra il gap minore fra prodotto e salario orari. Non perché il salario sia aumentato più che altrove, tuttavia. Fra il 2000 e il 2015, il salario orario reale italiano è fra quelli che sono saliti meno, non troppo distante, pero’, da paesi come Gran Bretagna e Finlandia. La cattiva notizia è che il gap è piccolo perché il prodotto orario italiano è salito pochissimo: la produttività italiana è stata la peggiore fra i 14 paesi studiati da Bruegel.
Maurizio Ricci