L’avvento al potere di Mario Draghi coincide con il primo compleanno della Pandemia. E così il ricordo del paziente zero di Codogno, era il 21 febbraio 2020, si affievolisce al cospetto del nuovo governo. La memoria dello stupore, dello sconcerto, della paura, delle bare, dei divieti viene offuscata dagli applausi all’osannato, crediamo suo malgrado, salvatore della patria. Il bonario e confuso paternalismo di Giuseppe Conte lascia il posto alla scienza economica e al prestigio internazionale.
Il custode della moneta diventa l’officiante del futuro. La religione del progresso riprende il suo posto. Il dogma della crescita e della ripresa scaccia i fantasmi della crisi. Non c’è posto per dubbi e pessimismo. La politica e la democrazia devono fermarsi. Nel conflitto tra libertà e necessità, quest’ultima stravince.
“Essere per prevedere, prevedere per agire”, era il motto di Auguste Comte che così intendeva contrastare “l’anarchia intellettuale”. Tutto può e deve tornare come prima. Anzi, meglio di prima. Questo è l’imperativo sociale preminente. La fiducia nella competenza e nella preparazione personale, dopo dileggi e negazioni, riacquista il suo ruolo guida. La rivincita delle élite.
Si potrebbe parlare di una riscoperta del positivismo illuminista se in realtà non stesse avvenendo l’esatto contrario e cioè il trionfo del vecchio irrazionalismo che ammanta la subdola volontà di potenza. La dittatura della tecnica, unica bussola e incrollabile mito.
L’uomo torna a farsi Dio e pensa ancora di poter plasmare il mondo a propria immagine e somiglianza. In fondo, come teorizzava Jean Paul Sartre, il progetto originario e fondamentale resta il desiderio di diventare “l’infinito stesso nella sua assoluta potenza creatrice e realizzatrice”. Lo scacco e il fallimento vengono archiviati in quanto ritenuti semplici incidenti di percorso.
Il coronavirus ci aveva messo di fronte alla morte, ricordandoci con crudele imprevedibilità che non siamo eterni, nonostante il benessere, le continue scoperte e l’allungamento della vita. La fragilità degli anziani, la ribellione della natura, l’importanza della sanità pubblica, gli errori di un modello di sviluppo basato su un insensato consumismo, sembravano aver rianimato una critica riflessione sul destino dell’attuale sistema. Ma un anno dopo, il genetliaco del Covid scatena un esorcismo di massa per ricacciare ai confini dell’intelletto ogni senso di caducità e di finitezza. Gli assembramenti compulsivi nei week end sono l’immagine di questa allucinazione obnubilatoria. Un rito tribale per sfidare e sconfiggere il contagio.
Eppure, il morbo continua ad esigere le sue vittime. I decessi nel mondo sono arrivati a due milioni e mezzo, in Italia siamo a centomila. Il ritardo nella campagna di vaccinazione e l’incognita delle varianti allungano l’incubo. Non è prevedibile quando potremo gettare le mascherine. Ma è come se ci fosse un doppio passo: da una parte l’entusiasmo della grande stampa e della maggioranza dei commentatori per l’arrivo a Palazzo Chigi di Draghi, dall’altra la cruda realtà.
I frizzi e i lazzi nei confronti del vecchio esecutivo, che pur ha fatto tutto quello di cui era capace, e gli smodati complimenti all’attuale riguardanti persino le riunioni ministeriali, codardo oltraggio e servo encomio di manzoniana memoria, alimentano più o meno consapevolmente la sensazione che il peggio sia passato. La doccia fredda di altre zone rosse sarà difficile da accettare.
Lo stesso ex banchiere ha ammonito che non basta riattivare la corrente per far tornare la luce. L’angoscia del buio resta. E non si rende un buon servizio al neopresidente del consiglio, e tanto meno a tutti noi, dipingendolo come il demiurgo il cui solo arrivo significa l’uscita dal tunnel. “Così ricostruiremo l’Italia”, ha titolato un importante giornale dando l’illusione che sia finita una guerra ancora in corso.
Ne riparleremo tra dodici mesi. Con l’augurio di non dover celebrare il secondo compleanno della Pandemia.
Marco Cianca