La testimonianza è di Vittorio Foa. “Nel settembre 1945, quando Lussu era ministro nel governo Parri, andai a chiedergli, per aiutare finanziariamente il partito di cui entrambi facevamo parte, di mettere una firma sotto un’autorizzazione, cosa consueta nel sottobosco politico del tempo. Lussu rispose: “Compagno, puoi chiedermi di montare a cavallo e andare in via Nazionale a rapinare l’oro della Banca d’Italia, e io-per il partito lo faccio subito. Ma mettere una firma sotto una cartaccia, giammai!”. Nell’idealismo dell’immagine il poeta riusciva a cogliere e giudicare la squallida realtà del mondo in cui ci avvolgevamo e ad avanzare, almeno come ipotesi, un mondo diverso”.
Lo stesso Emilio Lussu, che fu titolare dell’Assistenza postbellica e poi guidò il dicastero per i rapporti con la Consulta, ebbe a dire: “Come ministro, posso aver svolto un’attività modesta. Ma ho certamente dato un esempio, e nessuno me lo vorrà negare. Ho avuto dello Stato una concezione quale si deve avere di uno stato democratico, io ho sempre tenuto ben distinti i due concetti di partito e di Stato. Io credo che, se questo criterio fosse portato in ogni ministero, noi riusciremmo a riaffermare, sugli interessi dei partiti, il sovrano interesse generale dello Stato. E debbo dire ancora una cosa. I ladri, che erano numerosi, io li ho mandati tutti in galera, o almeno ho cercato di mandarceli tutti. Se qualcuno si è salvato non è certo per mia negligenza”.
Giuseppe Fiori concludeva la stesura de “Il cavaliere dei Rossomori” proprio con gli albori della Repubblica e della questione morale. Ora la biografia di colui che fondò il Partito Sardo d’Azione e fu tra i padri di Giustizia e Libertà, scritta per Einaudi nel 1985, torna in libreria con i caratteri di Laterza. Combattente (quattro medaglie al valore durante la Prima guerra mondiale), indomito antifascista (uccise a rivoltellate uno squadrista e mise in fuga gli altri camerati durante l’assalto alla sua abitazione di Cagliari), intellettuale, scrittore (Un anno sull’altopiano, Marcia su Roma e dintorni). Un socialista libertario che mise insieme il riscatto dei pastori, dei contadini, dei minatori della sua isola (i rosso-mori, appunto, come li definì un industriale fondendo sprezzantemente stemma sardista e colore politico) con le esigenze di democrazia e di uguaglianza della nazione intera.
Il Corriere della Sera ha anticipato in questi giorni la prefazione di Roberto Saviano alla nuova edizione della biografia. Con il quale ci permettiamo di concordare quando afferma che andrebbe letta nelle scuole, in specie le parti più avventurose. Ma se recensioni e anticipazioni si soffermano sulla dimensione quasi epica della narrazione, le pagine finali, quelle dedicate alla questione morale con le parole di Foa, hanno l’amaro sapore di una profezia.
Fiori racconta un episodio, piccolo ma significativo. Nell’estate del 45, ministro da meno di due mesi, Lussu riceve una lettera singolare dai titolari di una tipografia romana: “Ci permettiamo di ricordarle che vennero da noi eseguite, a suo tempo, le tesserine d’iscrizione al Partito sardo d’azione, per le quali le fu da noi inviata fattura ammontante a lire 1700 che, a causa dei dolorosi avvenimenti susseguitesi, non ci vennero mai corrisposte. Pur essendo trascorsi tanti anni, le saremmo gratissimi se lei volesse adoperarsi per la liquidazione di questa nostra vecchia pendenza”.
Il ministro si guarda bene dal respingere come bizzarra una tale richiesta, che arriva dopo quasi cinque lustri durante i quali è successo di tutto, dalle sue parti un debito è cosa disonorevole. E l’indomani, 13 agosto 1945, risponde: “Ricevo la loro lettera, che testimonia una memoria veramente prodigiosa di creditore. La somma richiesta mi sembra esattamente dovuta. Interesso immediatamente il Partito Sardo d’Azione per il pagamento. Così, a distanza di una generazione, i figli pagheranno i debiti dei padri”. Le mille e settecento lire vengono subito versate.
Conclude Fiori: “Ministro con Parri e De Gasperi, parlamentare ininterrottamente per 23 anni, consultore nazionale, costituente, senatore sino al ‘68, il cavaliere di razza fenicia, capo impetuoso, a momenti difficile, anche aspro, ma leale, muore povero, in casa d’affitto, alle 14 di mercoledì 5 marzo 1975, a ottantacinque anni. Una vita degna”.
Al commiato funebre, Alessandro Galante Garrone sentenziò: “Con lui se ne va uno degli uomini di cui l’Italia avrebbe più disperatamente bisogno”.
Sempre più.
Marco Cianca