La Cgil e la Filctem lanciano l’allarme per la chimica di base. Nel corso di una conferenza stampa convocata a Roma, la confederazione e la categoria, assieme a una folta delegazione di sindacalisti dei siti coinvolti dalla crisi Versalis, hanno fatto il punto sull’operazione di dismissione decisa dall’Eni e la conseguente ripercussione su un settore strategico per tutto il paese. Già il titolo del dossier distribuito ai partecipanti è chiaro: “Governo ed Eni chiudono la chimica di base in Italia e condannano l’industria nazionale al declino’’.
Presenti anche due esponenti dell’opposizione di gran peso, come i parlamentari Antonio Misiani, responsabile economico del Pd, e Chiara Appendino, del M5stelle, che hanno espresso pieno sostegno dei rispettivi partiti alla mobilitazione della Cgil in difesa della chimica.
“Non siamo davanti a un processo di cambiamento ma a una e vera propria dismissione messa in atto da Eni-Versalis – ha detto il segretario generale della Filctem Marco Falcinelli – con effetti devastanti per gli altri settori economici. In Europa saremmo l’unico paese che rinuncia a queste produzioni. La chimica è l’industria delle industrie, dismetterla vorrebbe dire affidarsi unicamente al mercato, accrescendo così le dipendenze del nostro paese. Tutto questo per noi è inaccettabile”. Un’azienda partecipata dallo Stato come l’Eni , insistono i sindacati, “dovrebbe guardare al bene del paese e non solo a quello degli azionisti. Invece, Eni sta abbandonando ogni attività industriale per presentarsi unicamente come intermediario sul mercato. E il governo non sta facendo nulla, anzi sta appoggiando questa scelta”.
‘’L’Eni si comporta come un fondo di investimento -sottolinea il segretario confederale Pino Gesmundo- ovvero punta su ciò che remunera gli azionisti e se un asset è in perdita (Versalis ha perso 5 miliardi negli ultimi tre anni, ndr) lo chiude. Ma se questo è inaccettabile da un fondo privato, è del tutto inconcepibile da parte di una società pubblica. Tanto più che il paese sta vivendo il 22esimo mese di declino della produzione industriale, e anche la fine della chimica non potrà non avere effetti su questo dato già cosi negativo’’.
Sul piano produttivo e sociale le conseguenze sono potenzialmente catastrofiche: “ L’80% dei prodotti della chimica di base vengono utilizzati in altri settori –spiega Falcinelli- senza contare che ci sono a rischio non solo 8mila i lavoratori diretti, ma anche, per ogni addetto della chimica, altri tre che sono impiegati nell’indotto. Quindi stiamo parlando di un bacino potenziale di 24mila lavoratori a rischio”.
La strada intrapresa da Eni, che di fatto contraddice il piano industriale presentato a luglio del 2023, e che prevedeva un pacchetto di investimenti da 1,5 miliardi di euro, è stata criticata anche sul piano strettamente tecnico da Francesco Basile, professore di chimica industriale all’Università di Bologna. “Eni – ha detto Basile– sta giustificando questa operazione sul piano della sostenibilità ambientale. Ma comprare i prodotti da altri paesi avrà una ricaduta sul clima molto più forte, perché ci saranno le emissioni legate sia alla produzione che al trasporto. Inoltre l’Europa, come previsto dal Green Deal, ha stabilito una tassazione alla frontiera dei beni in base alla Co2 emessa. Tutto questo si traduce in un incremento dei costi per l’acquisto anche del 50%”.
Gesmundo sottolinea che questa vertenza “ha un duplice binario, territoriale e nazionale, poiché’ colpisce direttamente due regioni come Puglia e Sicilia, che stanno cercando faticosamente di ricreare un proprio sviluppo, ma poi ha conseguenze a catena anche in tutti gli altri impianti dell’Eni, a partire dall’Emilia Romagna”.
E proprio nei territori già si sentono i primi effetti del piano di dismissione. Priolo, che era il fiore all’occhiello della chimica di base, con il suo cracking ma anche con l’unica produzione rimasta in Italia di aromatici, prodotti che ‘servono’ tutti gli altri stabilimenti in Italia, ha tirato giù le saracinesche il 31 dicembre. A Ragusa, dal 1^ gennaio sono iniziate le operazioni di smantellamento dell’impianto, e l’Eni non ha ancora presentato alcun piano alternativo per garantire l’occupazione. Ma non solo: come già detto, la fine di queste produzioni hanno ripercussioni su tutto il territorio e su altri settori, apparentemente lontanissimi. Per fare un esempio di quanto tutto sia concatenato: la chiusura del polietilene a Ragusa costringe all’angolo anche la florida serricoltura dell’area, a causa del venir meno della materia prima utilizzata proprio per la copertura delle serre. E molti altri settori, come l’edilizia industriale, i trasporti, la manutenzione, dovranno affrontare una crisi profonda in mancanza del polo chimico.
Anche il sito di Brindisi, fino a poco tempo fa definito dalla stessa Eni uno dei più performanti d’Europa, sta vivendo il proprio canto del cigno. L’azienda garantisce la salvaguardia degli occupati diretti, ma non è solo questo il problema. Quello che è in gioco, ribadiscono i sindacati, ‘’è la programmazione industriale del nostro paese per i prossimi 50 anni. Ed è stupefacente che il governo non se ne renda conto’’.
In realtà, il Mimit non è del tutto ignaro: nel corso dei diversi tavoli di confronto, rivela Gesmundo, gli stessi tecnici di via Veneto “concordano con noi e ritengono piano Eni è sbagliato. Ma evidentemente al governo manca la forza politica per imporre un cambio di programma, complici anche le ricche cedole che l’Eni paga allo Stato, cui appartiene il 30% delle azioni”.
Adesso le speranze sono riposte in un prossimo tavolo politico al Mimit, dove i sindacati si attendono dal governo risposte concrete in termini di politica industriale (aspetta e spera…). Nel frattempo si organizzano le mobilitazioni sindacali, con tre attivi sia a livello territoriale, nelle tre regioni più coinvolte, Sicilia, Puglia ed Emilia Romagna, sia a Roma: proprio sotto il Mimit, nel giorno dell’incontro cruciale con governo ed Eni.
Nunzia Penelope, Tommaso Nutarelli