Il sistema della contrattazione è in crisi. Uno sguardo veloce alla realtà delle relazioni industriali potrebbe portare a una visione tutta differente: i contratti dei grandi settori, per lo più industriali, si rinnovano velocemente, senza contrasti, spesso prima della loro scadenza. Si sono dati aumenti salariali importanti, capaci di sconfiggere o quanto meno attutire il peso dell’inflazione. Senza arrivare ai livelli dei lavoratori del settore auto negli Stati Uniti, che chiedono aumenti del 40% della loro retribuzione, e ottengono il plauso e l’appoggio del presidente Biden, a casa nostra non mancano gli esempi virtuosi. Fuori dell’industria spicca la richiesta dei bancari per aumenti oltre i 400 euro, che potrebbero a breve essere concessi. Ma esempi importanti sono stati i contratti dei Chimici, lo scorso anno, con aumenti che hanno tenuto testa all’inflazione, così come importante è stato, nelle scorse settimane, l’aumento nel rinnovo del contratto del legno; anche se Federlegno, rea di aver accettato un aumento salariale troppo alto, ha visto i suoi dirigenti esclusi dagli organi di Confindustria.
Una realtà comunque forte, in crescita, determinata. Ma, appunto, un quadro limitato. L’industria appare sempre più come un fortino, che si difende bene, ma è accerchiata dai nemici, forti e agguerriti. Tanti settori stentano, tanti contratti non vengono rinnovati, tanti settori hanno livelli salariali inferiori ai minimi dei contratti più rappresentativi. Servizi alle imprese, agricoltura, alberghi e ristorazione alimentare, vigilanza, sono settori dove la contrattazione o non c’è o non decolla. Pesa la difficoltà a chiudere contratti anche importanti. Il contratto del commercio è l’evidenza più clamorosa, a onta degli sforzi di Confcommercio e dei sindacati di categoria.
Questo sistema contrattuale avrebbe dunque bisogno quanto meno di una buona manutenzione. Il patto della fabbrica, l’architrave su cui si regge tutta la costruzione, è del 2018, cinque anni fa: che non sarebbero tanti per accordi di questa portata, ma che nei nostri tempi valgono come fossero cinquanta. Lo ha ricordato con chiarezza il segretario della Filctem Cgil, Marco Falcinelli, in una bella intervista al Diario del Lavoro, spiegando per quale motivo il Patto del 2018 non regge più e perché andrebbe riaperto il confronto con la Confindustria per un nuovo accordo più rispondente alle necessità dei tempi.
Il punto è che in questi cinque anni è cambiato il mondo, quello del lavoro e non solo. Abbiamo avuto, senza soluzione di continuità, la pandemia, il ritorno dell’alta inflazione, che tanti nemmeno sapevano cosa fosse, la guerra in Europa, alle porte di casa, il dramma delle competenze che mancano, quello delle dimissioni di massa. Tutto ciò mentre, nel campo del lavoro in senso stretto, l’attenzione si è spostata sulla persona, modificando così l’intero quadro dei riferimenti. In questo contesto di grande cambiamento il Patto della fabbrica non è stato capace assorbire le spinte esogene che riceveva, nonostante contenesse guizzi di intelligenza e di capacità previsiva non usuali. I riferimenti alla partecipazione, alla necessità di perimetri contrattuali, l’attenzione al tema salariale e alle criticità occupazionali potevano rappresentare altrettanti stimoli positivi a un cambiamento o anche solo a una correzione di rotta. Ma le crisi e le transizioni hanno distolto l’attenzione, come del resto rischia di fare adesso tutto il dibattito sul salario minimo legale: più un elemento di distrazione di massa che un istituto veramente utile nella guerra alla povertà.
Sia chiaro, il salario minimo stabilito per legge può rappresentare un vero aiuto per alcune realtà, anche molto diffuse. Ma non può rappresentare un antidoto nei confronti del lavoro povero, né riuscirebbe mai ad essere uno strumento per far crescere la produttività del sistema produttivo o anche solo di un’azienda. Né è in grado di sostenere l’impegno necessario per affrontare e risolvere i problemi della contrattazione. Per cogliere questo risultato è necessario dunque riprendere in mano il dibattito che portò al Patto della fabbrica e risolvere i vecchi nodi che non furono sciolti in quell’occasione e i nuovi che la realtà ha portato in evidenza.
Un lavoro che però non può essere assolto dal protagonismo delle federazioni di categoria, per quanto volenterose, al contrario deve vedere in prima linea le confederazioni, operaie e imprenditoriali. E il governo che non può restare testimone muto, ma prendersi tutte le responsabilità che gli competono. Obiettivo però estremamente difficile da raggiungere, dato che l’esecutivo non fa politica industriale, esclude qualsiasi tipo di politica dei redditi, si dimentica persino di svolgere quel compito primario, che tutti i governi e i ministeri del Lavoro hanno sempre esercitato, di aiutare l’avvio e la conclusione delle trattative contrattuali in difficoltà. Non c’è il governo, ma mancano anche le confederazioni, in particolare Cgil e Confindustria. Quest’ultima ha provato a proporre una trattativa per un nuovo patto sociale, ma l’indifferenza della Cgil l’ha velocemente convinta che non era il caso di insistere. La Cisl tenacemente rivendica questo ruolo, ma gli accordi si fanno in due, almeno, non certo da soli.
Tutta colpa delle confederazioni, dunque? Certamente no, ma la gravità dei problemi e l’irrigidimento delle posizioni chiederebbero un protagonismo tutto differente. Qualcuno dovrebbe farsi avanti e compiere il primo passo. Carlo Bonomi è vicino alla sua scadenza. Servirebbe che a sostituirlo fosse una persona capace, soprattutto sensibile a questi temi, peraltro centrali per la salute dell’industria.
Massimo Mascini