“Non capisco ma mi adeguo”, ripeteva il comico Maurizio Ferrini nell’indimenticabile programma di Renzo Arbore “Quelli della notte” del 1985. Ecco, allora adeguiamoci per un po’ al pensiero che va per la maggiore a proposito della fine del governo di Mario Draghi. “Vergogna”, ha intitolato La Stampa, “l’Italia tradita” le ha fatto eco la Repubblica, tutta colpa di Giuseppe Conte che ha aperto la crisi, seguito a ruota da Matteo Salvini e Silvio Berlusconi che hanno colto l’occasione per chiudere la parentesi del governo di unità (?) nazionale e arrivare al voto il più presto possibile per incassare una vittoria che dai sondaggi appare scontata. Ovviamente insieme a Giorgia Meloni che dall’opposizione invoca da tempo le elezioni anticipate, forte del 22 per cento dei consensi che le viene attribuito da tutte le rilevazioni demoscopiche. Invece il Movimento di Conte, ammesso che resti suo, non può sperare in alcuna vittoria, al massimo può pensare di risalire la china che lo vede precipitare nei consensi, autorelegandosi a un’opposizione barricadera sulla linea di Alessandro Di Battista.
Comunque, sono questi quattro a doversi vergognare, sono loro i traditori dell’Italia, quelli che hanno bruciato la migliore risorsa – anzi, l’unica – del nostro Paese. E l’hanno fatto per puro egoismo personale ed elettorale, senza considerare affatto l’interesse generale, la situazione drammatica provocata dalla crisi economica ed energetica, l’inflazione che cresce, il Piano di rilancio che rischia di restare senza finanziamenti europei, la legge di bilancio che forse non si riuscirà a fare e si dovrà ricorrere all’esercizio provvisorio, la guerra in Ucraina, e così via. Irresponsabili, insomma, per non dire sfascisti. Perfetto, abbiamo trovato l’amico e i nemici, il buono e i cattivi, abbiamo capito che il nostro eroe Draghi non è riuscito nell’impresa epica di sconfiggere i mostri e invece ha dovuto ripiegare, umiliato e offeso.
Ma è proprio così, è questa la favola (peraltro non a lieto fine) a cui dobbiamo far finta di credere come fossimo bambini in procinto di addormentarci? Oppure la storia è anche – e sottolineiamo anche – un’altra. Ovvero quella che ci racconta di un eroe che, forse per stanchezza o più probabilmente per scarsa attitudine alla politica, ha sbagliato quasi tutte le mosse, a cominciare da quella goffa autocandidatura al Quirinale del dicembre scorso. Da allora, Draghi non è stato più il Draghi che conoscevamo, quell’uomo capace di mettere tutti in riga con un gesto o addirittura un’alzata di sopracciglio. Da quel momento, il premier ha dovuto fare i conti con quella politica “sangue e merda” di cui parlò l’ex ministro socialista Rino Formica tanti anni fa. Ed è qui che ha dimostrato di non essere tanto capace di fare questo mestiere, cioè di mettere le mani dentro quella miscela fetida per poi, magari, tirarne fuori qualcosa di buono. Cantava Fabrizio De André: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior…”.
Invece non s’è visto nessun fiore, e neanche qualche diamante, ma solo macerie politiche. Che si potevano evitare se solo il premier fosse stato più attento alle sensibilità, anzi agli interessi dei partiti che lo sostenevano. Può non piacere, ma finché esistono, i partiti politici hanno tutto il diritto a far valere le proprie ragioni, tanto più quando si avvicinano le elezioni. In fondo ognuno di loro rappresenta un pezzo del popolo, e dunque è a quel pezzo che devono rendere conto e non certo al premier di turno. L’obiezione è nota: “Vengono prima gli interessi del Paese”. Ma chi decide quali siano gli interessi prevalenti del Paese, chi stabilisce che sono quelli di Draghi e non quelli di Conte, Salvini, Berlusconi, Letta, Meloni e gli altri? In fondo siamo ancora una Repubblica parlamentare, la cui anima sono i partiti politici che chiedono i voti ai cittadini per poi rappresentarli in Parlamento. Al contrario del tecnico di turno che, per quando bravo e autorevole, per quanto stimato in Italia e all’estero, i voti non li chiede e quindi non li prende. E se li chiede, non li prende lo stesso, basta ripensare al partito di Lamberto Dini o a quello di Mario Monti: urne vuote.
A scanso di equivoci, non stiano dando un giudizio di merito sui partiti che attualmente sono in Parlamento, che sono più o meno tutti inadeguati al compito che dovrebbero assolvere secondo la Costituzione, e spesso anche secondo il mandato che assegnano loro gli elettori (quando li hanno, gli elettori). La questione è strettamente costituzionale, nel senso che è la nostra Carta fondamentale ad assegnare il potere al popolo il quale delega i partiti politici a rappresentarli in Parlamento e al governo. Invece per troppe volte s è dovuti ricorrere al tecnico di turno, anche e a volte soprattutto per colpa degli stessi elettori che non hanno scelto chiaramente il vincitore e degli stessi partiti che non hanno saputo proporre un programma, anzi un progetto i grado di convincere la maggioranza dei cittadini a votare per loro.
Ma tutto questo non può significare la rinuncia alla democrazia, ovvero rifugiarsi dietro l’ombra dell’uomo solo al comando. Altrimenti finiamo dritti dritti nel più estremo dei populismi, di cui lo stesso Mario Draghi si è fatto interprete mercoledì scorso in Senato quando ha dichiarato: “Sono qui solo perché lo hanno chiesto gli italiani”. Italiani che tra un paio di mesi saranno chiamati alle urne: e qui, probabilmente, chiameranno al governo i veri populisti. Non Draghi, ma purtroppo la destra che lo ha cacciato dal governo.
Riccardo Barenghi