Fa paura la nuova diffusione della pandemia. Fanno paura anche le difficoltà dell’economia, che stava per risollevarsi, ma ricomincia ad annaspare. Ma fa più paura la possibile caduta della coesione sociale. Non sono i moti di piazza che spaventano, né il coinvolgimento in questi disordini degli estremisti di destra o della malavita. Questi speculano sempre sui mali altrui, se ne fanno un punto di forza, ma sappiamo come respingerli. La possibile, probabile, caduta della coesione sociale, invece, è la cosa di cui realmente e profondamente preoccuparsi. Perché vediamo le divisioni della nostra società farsi sempre più profonde e crescere di numero. Faglie che si allargano e che non è facile riunificare.
Durante i mesi invernali e primaverili, durante il lungo lockdown che abbiamo sopportato, abbiamo avuto sempre il conforto della speranza. Eravamo chiusi, confinati in casa, non potevamo uscire e vedere i nostri cari, ma sapevamo di non essere soli, ci sentivamo uniti in questa battaglia e abbiamo continuato così, senza disperarci, credendo che ne saremmo usciti presto e bene. Non era vero, ma lo speravamo e confidavamo in chi aveva la responsabilità di guidarci fuori dal guado. Non è un caso se nelle recenti elezioni che si sono succedute ha vinto, sempre o quasi sempre, proprio chi era stato alla guida in quel lungo periodo. Sindaci uscenti, governatori uscenti, quasi tutti hanno superato lo scoglio delle urne, perché il sentimento che dominava era la fiducia.
Adesso questo sentimento sta cadendo, e interviene il rancore. Che c’era anche prima, come aveva documentato con la solita acutezza il Censis nel suo rapporto annuale. Ma ora sta crescendo, alimentato dalla sensazione che qualcuno ci sta rubando le opportunità che ci spetterebbero di diritto. Contro questo veleno sottile è difficile combattere, quasi più che contro il virus che ci ammorba. E ci divide, ci separa, e proprio per questo ci indebolisce. Sembra che tutti pensino soprattutto, forse esclusivamente, al proprio interesse. Che non si deve dimenticare, certo; ma non deve nemmeno essere l’unico parametro della nostra azione e del nostro pensiero. Al momento delle scelte prevale invece l’egoismo, si tende a dare più peso alle cose che ci riguardano direttamente, senza mai alzare lo sguardo, senza cercare di capire quale sia l’interesse comune.
Questo accade anche nel vasto campo delle relazioni industriali, dove pure dovrebbe essere nitida la percezione degli interessi in gioco nel lungo periodo. C’è un episodio della mia vita familiare che mi sembra rappresenti questa necessità. Mio padre era un sindacalista di azienda, conduceva le trattative sindacali nel settore della chimica. Adesso c’è la Federchimica, allora si chiamava Aschimici, ma quello era. Tanti anni fa, nel 1966, fu rinnovato il contratto nazionale di lavoro della categoria dei chimici. Mio padre aveva portato avanti il negoziato, anche se le decisioni di fondo venivano prese dagli industriali. Tirando le fila di questo negoziato mi disse: “Non gli abbiamo dato nulla, è stato un errore, lo pagheremo”. Tre anni dopo ci fu l’autunno caldo, i rapporti di forza si ribaltarono, il prezzo pagato dalle aziende fu molto alto.
Mio padre, che purtroppo a quel momento non c’era più, lo aveva previsto. Sapeva, per l’esperienza che aveva accumulato in tanti anni al tavolo di trattative, che non bisogna mai stravincere, che bisogna contemperare le esigenze, guardare al di là del momento che si sta vivendo, soppesando nella giusta misura le conseguenze delle proprie azioni. Adesso sembra che stia accadendo proprio questo, ciascuno si rintana nel proprio campo, sostiene le sue ragioni, senza tener troppo conto di cosa questo comportamento nel medio periodo causa. La contrapposizione forte che sta crescendo sul tema del blocco dei licenziamenti vede le parti sociali nettamente divise. Gli industriali pensano che questo blocco sia una limitazione forte alla loro libertà e un freno alle loro possibilità di ripresa. E hanno ragione, perché se un’impresa non ha più bisogno di un lavoratore è impegnativo continuare a tenerlo in azienda, pagargli salario e contributi. Ma hanno ragione anche i sindacati, che difendono i lavoratori, i quali potrebbero perdere il loro posto di lavoro, e allo stesso tempo temono che un’ondata di licenziamenti provocherebbe difficoltà sociali molto forti, che non potrebbero non avere fortissime ripercussioni sulla realtà dell’economia e anche sugli equilibri politici.
Il ragionamento potrebbe allargarsi, toccare per esempio il tasto, delicato, dei rinnovi contrattuali, anche questo pomo della discordia tra le forze sociali. Anche qui le ragioni sembrano appartenere a entrambe le parti. Alle imprese, che non vogliono caricarsi di nuovi oneri mentre stanno combattendo per resistere alla caduta degli ordini, ma anche ai sindacati, che vogliono portare a casa qualcosa per i lavoratori e allo stesso tempo vorrebbero un aumento dei salari, per sostenere la domanda interna che langue pericolosamente. Forse la ragione non sta da nessuna delle due parti, nel senso che solo contemperando le diverse posizioni, cercando un equilibrio generale, è possibile accontentare tutti.
La coesione sociale è un bene primario, è il sale della nostra democrazia. Metterlo a rischio potrebbe essere un grave errore, che poi pagheremmo tutti.
Massimo Mascini