Avviso ai naviganti: è cominciato il balletto dell’ipocrisia attorno al concordato preventivo previsto dal governo e che riguarderà le partite Iva.
Per capire di che cosa si tratta e dove si andrà a parare bisogna partire dall’inizio. Nel contesto del cosiddetto “fisco amico”, il governo ha previsto che la lotta all’evasione nel complesso mondo del lavoro autonomo, della piccola impresa e delle professioni si realizzerà attraverso una forma di concordato biennale.
Il meccanismo alla base di questa misura può essere riassunto così: sulla base dei dati disponibili, il governo individua quale dovrebbe essere una dichiarazione adeguata di fatturato del singolo contribuente. Ci sono le banche dati, ci sono strumenti abbastanza sperimentati come gli ISA (indicatori sintetici di affidabilità, che sono l’evoluzione e l’ammodernamento dei vecchi studi di settore). Non offre indicazioni precise ma segnala le incongruenze il confronto diretto, negli stessi settori e negli stessi territori, tra le dichiarazioni dei contribuenti ritenuti più affidabili e quelle che divergono nel modo più plateale.
Stabilito un ammontare quantomeno credibile del fatturato da dichiarare per definire l’ammontare delle imposte, il governo offre al contribuente (sia quelli considerati più affidabili, sia quelli clamorosamente inaffidabili) la possibilità di avvicinarsi a questo dato (avvicinarsi eh), garantendo che nei due anni di accordo non vi siano accertamenti più penetranti.
Il governo ha già affermato che, grazie a questo strumento, conta di recuperare molte risorse di quelle che saranno necessarie all’Italia, puntando anche a dimostrare che l’evasione fiscale si riduce “amichevolmente” e non con controlli e iniziative troppo puntute. Non a caso, il cosiddetto redditometro, che sarebbe dovuto tornare al lavoro, è stato di nuovo messo nel freezer.
In che cosa consista a questo punto il balletto dell’ipocrisia è presto detto. A pochi mesi dalla presentazione del testo da parte del viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, il teorico del “fisco amico”, il governo ha fatto già un primo passo indietro: la differenza tra quanto previsto e quanto risulta dalle ultime dichiarazioni dei contribuenti non va versata tutta insieme. Alla prima occasione si deve versare solo il 50 per cento dell’eventuale dovuto.
Ora però è cominciata anche l’operazione smontaggio da parte degli operatori del settore. Un classico. Il Sole 24 Ore, quotidiano molto attento al mondo dei commercialisti, ha già fatto un primo sondaggio: aderiranno i contribuenti o non aderiranno? Il risultato è platealmente deludente per il governo. I commercialisti segnalano che la maggior parte dei contribuenti per ora non ci pensa proprio: il 59 per cento di coloro che hanno risposto ha considerato la misura poco attrattiva; il 33,6 addirittura a interesse nullo.
La ragione? I contribuenti hanno chiarito di non essere interessati perché in questo modo dovrebbero pagare più tasse. Cioè il governo gli offre di mettersi in regola, versando non il dovuto ma almeno di avvicinarsi al dovuto, garantendo che l’accordo non porta controlli, ma i contribuenti (e i commercialisti) non sembrano proprio interessati.
Nessuno che conosca la realtà fiscale dovrebbe essere sorpreso (neppure il governo). Come ha scritto recentemente la Corte dei Conti, in Italia chi non paga le tasse ha probabilità ampie di evitare le verifiche, e quando vi incappa spesso non risponde alle richieste dello Stato preferendo vedersi recapitare un’iscrizione a ruolo nella speranza concreta di vedersela rottamare; quando la rottamazione arriva, poi, molti aderiscono, versano la prima rata e poi tornano a scomparire.
Come dire: poco o nulla è sempre meglio del 50 per cento in più, anche perché una volta versata la differenza è come se il contribuente avesse certificato la propria evasione precedente.
E allora? Ecco il balletto che – ci si può scommettere – continuerà fino in autunno, quando scatterà la necessità di decidere. Contribuenti infedeli e commercialisti hanno cominciato a premere sul governo perché faccia offerte più interessanti e meno invasive, sapendo che il governo ha un disperato bisogno di risorse, che all’interno della maggioranza di centrodestra vi sono molti amici (tra condoni e rottamazioni dal 2022, anno delle elezioni politiche, sono passate oltre 15 misure a totale o parziale colpo di spugna, di sconto, di appeasement).
Il prossimo passo di danza, dunque, spetta al governo. Che farà? Pur di portare a casa qualcosa e di far vedere che il “fisco amico” funziona abbasserà la quota del 50 per cento da versare alla prima rata? Farà altre concessioni, smonterà qualche altro pezzo di rete o accetterà di veder fallire il concordato?
C’è tutta l’estate per verificare. Ma due cose sono già certe. La prima: se gli evasori sanno che al governo c’è chi non intende metterli troppo sotto pressione (per motivi elettorali, oltre che per posizione ideale) non si smuoveranno. Tanto più che, come ha scritto la Corte dei Conti, quando anche fossero “pizzicati” e fossero iscritte a ruolo alcune delle somme dovute e non versate, potrebbero sempre invocare il pagamento rateale (in più anni), versare le prime rate e poi scomparire, sperando nell’avvicinarsi (al più tardi nel 2027) di nuove elezioni politiche e di nuove, possibili iniziative di condono, rottamazione o sconto in cambio del proprio voto.
La seconda certezza riguarda tutti i contribuenti onesti: se il governo non riuscirà a mettere sotto pressione davvero gli evasori, saranno gli onesti a pagare i pesanti aggiustamenti di bilancio necessari oggi e nei prossimi anni, perché ormai i conti sono arrivati all’osso. E se non si fa rientrare l’evasione, i soldi si possono trovare solo con nuove tasse su chi le paga o con tagli delle prestazioni pubbliche (leggi pensioni, sanità, scuola, stipendi, ecc…). Tertium non datur, perché con l’entrata in vigore del nuovo patto di stabilità europea non c’è spazio per fare altro deficit.
Roberto Seghetti