Il calendario è inesorabile. Segna il trascorrere del tempo e non fa sconti. La memoria magari vacilla ma le date sono lì, ad inchiodare i ricordi. Vale per la vita dei singoli, vale per la storia collettiva. Ed ecco che tra un pugno di giorni arriverà di nuovo il 25 aprile. Un giovedì, subito dopo la domenica di Pasqua e il lunedì dell’Angelo. Occasione di un lungo ponte, per chi potrà permetterselo. Un giorno di festa, come tanti. Molti, la maggioranza, non sanno perché, non ricordano o preferiscono non farlo, gli altri, una minoranza, penseranno con gratitudine a quel giorno del 1945 quando i partigiani entrarono in Milano dopo la cacciata dei nazisti e dei fascisti. E alcuni, nostalgici, continueranno a considerarlo un evento luttuoso.
La Liberazione resta una ricorrenza controversa. Non è penetrata fino in fondo nella coscienza collettiva, sedimentando in un comune sentire. La lotta politica ha impedito che fosse assimilata e condivisa. Il Partito Comunista l’ha usata come la falce e il martello, un’arma da brandire contro i trionfi della Democrazia Cristiana che a sua volta è ricorsa alla sordina e all’oblio in una sorta di benevola assoluzione mentre il Msi alimentava la fiamma che nel suo simbolo scaturiva dalla tomba del Duce. La fine dei grandi partiti di massa avrebbe potuto far uscire le passioni di parte e far entrare l’oggettività dello sviluppo storico. Dalla dittatura e dalla guerra alla pace e alla democrazia. Punto. E invece la contesa ha continuato a scorrere nelle vene del nostro fragile Paese per emergere, carsica, in alcuni momenti. Durante il primo Berlusconi fu pretesto per una grande manifestazione contro il governo.
E oggi che le redini della nazione sono nelle mani dei Cinque Stelle e della Lega, che segno avrà la festa? E’ il centenario della nascita dei Fasci di combattimento: una recente mostra della Fondazione Anna Kuliscioff ha ben illustrato il percorso da movimento a regime, dal 1919 al 1926. Ed é l’anno in cui i rigurgiti fascisti stanno dilagando e assurgendo alla dignità di nuova cultura di massa, con complici occhieggiamenti di una parte dell’esecutivo. Al peggio non sembra esserci fine. Donald Sassoon dice che se è ottimista parla di disastro, se pessimista di catastrofe.
La profezia di Ferruccio Parri non fu ascoltata: “Abbiamo bisogno di una lunga e tenace educazione civica che ci liberi di un triste passato e che dia agli italiani il senso della serietà morale”. Il civismo è morto e il rancore sociale ha preso il suo posto. E così il 25 aprile resta una festa di minoranza, come di minoranza furono il Risorgimento, l’antifascismo e la Resistenza. Tre giorni prima di saltare su una mina tedesca, mentre cercava di raggiungere i partigiani, Giame Pintor scrisse al fratello Luigi: “ Gli italiani sono un popolo fiacco, profondamente corrotto dalla sua storia recente, sempre sul punto di cedere a una viltà o a una debolezza. Ma essi continuano ad esprimere minoranze rivoluzionarie di prim’ordine: filosofi ed operai che sono all’avanguardia d’Europa”.
In questo elenco di coraggiosi va inserito a pieno titolo Simone, 15 anni, il ragazzo che a Torre Maura ha sfidato gli squadristi di CasaPound durante l’assedio ai Rom: “Speculavano sui poveri, io non l’accetto. Sarò pure uno su cento ma non mi faccio spingere e intimidire”. Ecco, quest’anno il 25 aprile deve avere il suo volto.
Marco Cianca