Al contrario di quel che diceva Giulio Andreotti, il potere logora chi ce l’ha. Se vi mettete nei panni di Mario Draghi, per esempio, cioè di uno che il potere ce l’ha eccome visto che da un anno e mezzo è (o era) il premier più amato dagli italiani e dagli stranieri, vi accorgereste che rispetto all’inizio della sua avventura di governo, la sua figura è ormai parecchio sbiadita. Il consenso straordinario di cui godeva è via via diminuito, dentro e fuori il Palazzo. Gli italiani si aspettavano grandi cose da quest’uomo venuto a salvarli da una situazione critica, la pandemia, la crisi economica, la disoccupazione crescente e via dicendo. E per qualche mese, Draghi è stato all’altezza del compito che gli era stato assegnato da Mattarella, riuscendo perfino a mettere in riga i partiti della sua maggioranza impossibile. Bastava poco per costringerli a obbedire ai suoi ordini, in gioco c’era la salvezza del Paese.
Ma poi, sarà per la sua goffa candidatura al Quirinale, sarà per la guerra, sarà per la crisi energetica e la speculazione che l’ha accompagnata, sarà perché le elezioni politiche si avvicinano, sarà quel che sarà ma è un fatto che – come le mezze stagioni – non c’è più il Draghi di una volta. Ormai il premier è costretto a navigare in mezzo alle onde della politica, ai veti incrociati dei partiti, ai loro ultimatum travestiti da richieste di buon senso, come quelle avanzate da Giuseppe Conte nell’incontro di mercoledì sorso a palazzo Chigi.
Appunto, Conte: anche nei suoi panni si sta scomodi, scomodissimi. L’ex avvocato del popolo e attuale leader di un Movimento in grave crisi di identità e di consensi, non solo ha dovuto subire la pesante scissione del ministro Luigi Di Maio ma soprattutto non sa più che cosa farà da grande (ammesso che l’abbia mai saputo). Non sa se vuole restare al governo oppure uscirne rispolverando la vecchia natura barricadera dei Cinquestelle. Non sa se unirsi al Partito democratico per tentare di battere la destra alle elezioni dell’anno prossimo, oppure se invece scegliere la strada autarchica del “noi contro tutti”. Non sa se per recuperare i consensi perduti è meglio cercare di ottenere qualcosa rimanendo nei luoghi del potere, oppure unirsi ad Alessandro Di Battista nella battaglia contro la casta. Insomma, non sa.
Anche Matteo Salvini non sa che fare, proprio come Conte il capo leghista si trova a disagio qualsiasi vestito indossi. Soffre se si mette quello del governo, ma soffre pure se si rimette in bermuda come fece al Papeete nel 2019. Stretto nella morsa tra le pulsioni ribelliste di una parte del suo popolo e quelle governiste dai suoi ministri e governatori, e soprattutto di una buona fetta degli elettori “produttivi” del nord. E così oscilla, anzi sbanda e tenta faticosamente di ridarsi un’identità scagliandosi contro lo ius scholae e la legalizzazione della cannabis. Immigrati e droga, insomma, battaglie che gli portarono fortuna in passato ma che oggi appaiono inefficaci. La sua natura lo porterebbe a uscire dal governo, vorrebbe tanto ma non può. Dunque, resta ma scalpita. Spera nei Cinquestelle, ché se vanno via loro anche per lui sarebbe più semplice seguirli all’uscita.
I panni di Enrico Letta invece sono sempre gli stessi, una classica grisaglia coerente e rassicurante. Ma nonostante le apparenze e i sondaggi che accreditano il suo partito intorno al 20 per cento, il leader del Pd non sta tanto comodo nel suo vestito, soprattutto quando si guarda intorno e pensa al futuro. Intorno a sé vede le macerie dei Cinquestelle, che di conseguenza mettono in seria discussione quel campo largo che dovrebbe (o avrebbe dovuto) diventare un’alleanza politico-elettorale in grado di battere il centrodestra alle elezioni politiche. Per non parlare dei piccoli partiti centristi – Italia viva, Azione di Calenda e poco altro – che nei suoi sogni dovrebbero far parte del nuovo Ulivo ma che non hanno nessuna intenzione di partecipare, visto l’odio che nutrono nei confronti dei grillini (peraltro ricambiato). Gli resta la pattuglia di Bersani e Speranza, insieme a qualche associazione sparsa sul territorio: poca roba. Quindi anche il futuro di Letta non è roseo, tanto più che ha scelto di mettersi agli ordini di Draghi senza eccepire alcunché. Ma non sarà l’attuale premier a fargli vincere le elezioni. Dovrebbe cambiare vestito prima che sia troppo tardi, ma nel suo armadio trova solo grisaglie, tanto istituzionali quanto tristanzuole.
Il doppiopetto Caraceni di Berlusconi ormai è talmente logoro e stretto che non funziona più come un tempo, anche lui non sa più cosa mettersi. Mentre l’abbigliamento di Meloni, che non sta al potere e quindi non è logorato come gli altri, è adatto alla battaglia di opposizione, al comizio, alla polemica, ma non al ruolo di premier. Anche lei, se pensa seriamente di arrivare a palazzo Chigi, dovrà rifarsi il guardaroba: ammesso e non concesso che le basti.
Insomma, per ribaltare un vecchio adagio (questo non coniato da Andreotti), oggi l’abito non fa più il monaco. Toccherà allora trovare nuovi vestiti e magari anche nuovi monaci.
Riccardo Barenghi