Più si legge sul tema della riforma della contrattazione e meno sembra di capire. L’impressione è che sia diventata materia di distinzione (se non di scontro) tra la “nuova” e la vecchia politica: un altro tema per dire che si “volta pagina”. Senza aver ancora scritto niente di chiaro sulla pagina nuova che si intende aprire (e forse senza aver ben letto le pagine vecchie).
Le posizioni (certo di partenza) del sindacato unitario sono note e ufficiali. Quelle del Governo enunciate per titoli, se non evocate per immagini. In Confindustria si attende una ricomposizione politica attorno alla nuova presidenza per capire se c’è davvero volontà di riformare il sistema contrattuale e quale sia il modello scelto.
Forse, si dice, le parti sociali alla fine si troveranno per evitare che il Governo intervenga in maniera unilaterale su una materia loro. Ma il dubbio che le divisioni culturali tra piccole e grandi imprese (o politiche tra associazioni di categoria) possano essere occasione per destrutturare il sistema contrattuale invece che ristrutturarlo è più che legittimo.
Se d’altro canto il Governo volesse davvero “regolare” il sistema contrattuale (rinnovando i Ccnl e valorizzando il secondo livello) potrebbe ben farlo nel vasto settore dell’impiego pubblico (ove è datore di lavoro di più di 3 milioni di persone) ma fino ad ora se ne è ben guardato.
E nemmeno un provvedimento governativo sul “salario minimo”, a mio parere, sarebbe in grado di smontare il sistema contrattuale che conosciamo, perché resterebbero da negoziare molte altre materie (orari, inquadramenti, organizzazione del lavoro ecc) oltre alle differenze tra i minimi e le retribuzioni complessive. Nelle grandi imprese e in milioni di piccolissime imprese che non hanno tempo, denaro, voglia, di gestire in proprio le trattative sindacali. E non è credibile che nemmeno il più sprovveduto consulente di Palazzo Chigi si immagini di sostituire la contrattazione collettiva con milioni di contrattazioni individuali.
Cosa resta allora a separare le parti? Uno dei punti su cui ci sarebbe maggiore distanza tra Confindustria e sindacati è (anche secondo il Governo) la necessità di spostare il baricentro contrattuale sul secondo livello per far crescere la produttività e il valore aggiunto delle imprese e poterne distribuire anche ai salari. Ma quest’idea è contenuta anche nel documento Cgil Cisl Uil sulla contrattazione. Allora dov’è la distanza?
Sembra di capire che il vero problema sia nel rapporto che si intende stabilire tra contratto nazionale e contrattazione di secondo livello: quale funzione, quale collegamento, quale gerarchia.
Ma anche su questo punto, se invece che politici e giuristi se ne occupassero gli “artigiani delle relazioni sindacali”, la materia si semplificherebbe molto. L’idea infatti che si faccia prioritariamente la contrattazione di secondo livello per i milioni di imprese sotto i 5 dipendenti è assurda. Tant’è che le imprese artigiane praticano già da anni sia la contrattazione nazionale sia quella territoriale. Ma anche l’idea opposta secondo cui la contrattazione di secondo livello potrebbe assorbire e rendere inesigibile il contratto nazionale, a ben vedere, non è molto realistica. Quale imprenditore sarebbe davvero disponibile a trattare ex novo materie come orari massimi e minimi, straordinari, livelli di inquadramento, retribuzioni (di operai, tecnici, quadri), ferie, sicurezza, malattia, permessi, diritti) senza avere una base comune di riferimento nel contratto nazionale? Magari oggi, perdurante la crisi, qualcuno si potrebbe immaginare di riuscire a rinegoziare tutte le condizioni di lavoro al ribasso. Ma le aziende che esportano con successo? Rinegozieranno tutte le materie sulla base delle loro performance? E quando ci sarà una ripresa solida e speriamo generale? L’effetto di questo modello contrattuale “anarchico” sarebbe quello di aumentare la conflittualità interna tra imprese e sindacati e la concorrenza tra le stesse imprese. Serve a qualcuno?
Il problema allora sembra davvero ridursi a che funzione si debba dare al contratto nazionale: quanti contratti, quali regole sono generali e quali no, cosa vuol dire condizioni “minime” di tutela per tutti i lavoratori. E poi ben venga la diffusione del secondo livello contrattuale “per far crescere insieme salari e produttività”. Questo è un obiettivo descritto nel documento Cgil Cisl Uil. Speriamo che anche Confindustria faccia presto una proposta di buon senso.