Il recente congresso della Cisl ha trasmesso l’immagine di un drammatico ritorno al passato per il sindacalismo italiano, agli anni 50’ del secolo trascorso, segnati dalla divisione ideologica prodotta dalla guerra fredda e dalla contrapposizione tra le tre centrali.
L’assise del sindacato di ceppo cattolico infatti, ha riproposto una sorta di incomunicabilità tra le confederazioni, con i segretari di Cgil e Uil uniti in un’inedita alleanza, almeno per quest’ultima considerata la sua storia segnata dalla cultura del riformismo sindacale di matrice socialdemocratica europea, che hanno disertato i lavori congressuali.
Una divisione che impedisce ai sindacati di avere proposte unitarie e di assumere iniziative adeguate ai problemi che affliggono, in questa fase storica, il mondo del lavoro, in primo luogo per l’evidente questione-salariale che il lavoro povero e sottopagato propone.
L’Italia è l‘unico Paese sviluppato dell’area Ocse che, dal 1990 ad oggi, ha visto lo stipendio annuo medio diminuire. E gli effetti economici dell’invasione russa dell’Ucraina, dall’aumento delle bollette energetiche alla crescita dell’inflazione, hanno già il segno dell’emergenza sociale.
E però, a fronte anche di una direttiva europea, la Cisl ha ribadito la propria opposizione all’introduzione del salario minimo legale, come del resto Confindustria, rilanciando invece, la proposta di un “patto sociale”, sul modello di quelli realizzati dal 1993 in poi, con la “concertazione dell’emergenza” e la politica dei redditi, che, invece, l’associazione degli industriali di viale dell’Astronomia ha bocciato, e senza alcun riscontro da parte di Cgil e Uil e del premier Draghi, il cui rapporto con le parti sociali sembra solo di pura cortesia informativa, senza neppure l’instaurazione di un blando dialogo sociale, anch’esso auspicato dall’Unione Europea.
Secondo il segretario della Cisl Sbarra “non serve una legge sulla rappresentanza né sul salario minimo“, che “devono restare” nell’autonomia delle parti”. Una posizione che ribadisce l’ostilità storica cislina all’intervento della legge per regolare i rapporti tra capitale e lavoro, la quale riguardò persino lo Statuto dei lavoratori nel 1970, ferma sul richiamo a quell’ordinamento intersindacale che poggiava sul regime di monopolio sindacale delle tre centrali e di Confindustria, ma che oggi appare superato in conseguenza dell’elevato pluralismo sia tra le organizzazioni dei lavoratori che tra le associazioni datoriali, imponendo di attuare, finalmente, la previsione dei commi 2, 3 e 4 dell’art.39 della Costituzione, naturalmente aggiornati alla luce del diritto vivente, per dare certezze in materia di rappresentanza, rappresentatività ed efficacia generale dei contratti collettivi e ponendo fine all’autoriconoscimento di alcuni soggetti collettivi, con la conventio ad excludendum di altri.
Il salario minimo legale servirebbe a tutelare il potere di acquisto dei lavoratori – magari estendendolo anche alle figure del lavoro autonomo economicamente dipendente come i rider – non coperti dai contratti collettivi e contrastare il dumping salariale e si può apprezzare il ministro del Lavoro Orlando allorquando afferma che in assenza di un accordo tra le parti sociali, dovrà decidere il Parlamento, prendendo però, quale base di riferimento per i minimi retributivi i contratti collettivi sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi, per non entrare in conflitto con le organizzazioni confederali e legittimare un monopolio rappresentativo ormai slegato dalla effettiva rappresentatività. Operazione, quest’ultima, in contraddizione con lo spirito del salario minimo legale, come dimostra l’esperienza comparata europea, dove i minimi retributivi vengono stabiliti prescindendo dalla contrattazione collettiva, per spingerla verso l’alto.
Insomma, su temi così importanti per le vite dei lavoratori e delle lavoratrici, purtroppo, si assiste ad una sorta di beckettiana commedia dell’assurdo, che rinvia la risoluzione dei problemi e perpetua intollerabili diritti di veto.
Maurizio Ballistreri Professore di diritto del lavoro nell’Università di Messina, Responsabile dell’Istituto di Studi sul Lavoro