Il faticoso incontro che si è svolto ieri, lunedì 15 luglio, al Ministero dello sviluppo economico può costituire, a prima vista, una tappa relativamente secondaria nel lungo percorso delle complesse vicende dell’ex Ilva. Ma, se si guarda con attenzione a quanto accaduto nel palazzo posto all’incrocio fra via Veneto e via Molise, si ricava una diversa impressione.
È ben vero, infatti, che tutti i rischi che pesano sul futuro dell’impianto siderurgico di Taranto sono ancora lì dove erano, e che nessuno di essi è stato superato. È anche vero, però, che l’incontro stesso ha costituito l’ennesima dimostrazione del fatto che le relazioni industriali, quando vengano praticate con buona volontà, costituiscono un metodo in sé positivo, nonché foriero di possibili ulteriori sviluppi.
Come si ricorderà, mercoledì 10 luglio, sempre al Mise, si era svolto un precedente incontro che era stato convocato per monitorare l’applicazione dell’accordo del settembre 2018, quello con cui i sindacati avevano dato il loro assenso all’acquisizione, da parte di ArcelorMittal, dei “complessi aziendali” del gruppo Ilva in Amministrazione straordinaria. Si ricorderà però anche che l’affastellarsi di troppi problemi di varia origine e natura aveva portato l’incontro a concludersi con un sostanziale nulla di fatto.
Quali erano questi problemi? È presto detto. Uno: l’approvazione, all’interno del cosiddetto decreto Crescita, di una norma che ha cancellato lo scudo legislativo volto a proteggere i nuovi proprietari dell’ex Ilva da possibili conseguenze legali connesse alle problematiche in ampio senso ambientali derivanti da responsabilità dei precedenti proprietari. Due: il conseguente annuncio, effettuato dai vertici di ArcelorMittal, che, qualora non si riuscisse a rimuovere questa minaccia, pendente come una spada di Damocle sul capo dei nuovi manager, il colosso franco-indiano dell’acciaio si sarebbe ritirato dall’impresa avviata con l’acquisizione dell’ex Ilva a far data dal 6 settembre prossimo. Tre: la decisione unilaterale, assunta nel frattempo dalla nuova proprietà a fronte di un calo della domanda di acciaio, di porre 1.395 lavoratori dello stabilimento tarantino in Cassa integrazione per 13 settimane. Quattro: la decisione della Procura di Taranto di disporre l’avvio delle operazioni di spegnimento controllato dell’Altoforno 2 dello stabilimento tarantino.
Insomma, ce n’era abbastanza per creare un ingorgo problematico così intrecciato da bloccare, al momento, qualsiasi tentativo volto a individuare qualche soluzione.
A tutto questo, si è poi aggiunto un evento luttuoso. La sera dello stesso mercoledì 10 luglio, a seguito di una tromba d’aria che ha colpito la costa tarantina, la gru posta sul quarto sporgente portuale è precipitata in mare, trascinando con sé, con conseguenze mortali, il gruista Cosimo Massaro. Di male in peggio. Anche perché questo episodio tragico, nella sua brutalità, ha avuto l’effetto di rinfocolare, in vasti settori dell’opinione pubblica tarantina, quei sentimenti ostili all’acciaieria che la percorrono da tempo. E ciò mentre i sentimenti dei 10.700 dipendenti assunti da ArcelorMittal erano agitati non solo dal cordoglio per la morte di un compagno di lavoro, ma dai rinnovati timori sul proprio futuro innescati dalla messa in Cassa integrazione di ben 1.395 colleghi.
Ebbene, si può forse dire che l’emozione connessa alla morte dell’operaio Cosimo Massaro ha posto tutti di fronte alla necessità di cominciare, o meglio, di ricominciare a fare qualcosa di concreto per salvare lo stabilimento da un destino che talvolta, negli ultimi tempi, è apparso quasi segnato.
Il percorso che è stato intrapreso è dunque quello della messa in sicurezza degli impianti. Un percorso che, date le proporzioni dell’acciaieria tarantina, più estesa della stessa città jonica, e comunque la più grande d’Europa, costituisce indubbiamente un ben vasto programma. Ma ha, e non è poco, il pregio della concretezza. O, quanto meno, di una possibile concretezza.
Alla fine di un incontro convocato per le ore 13:00, realmente avviatosi intorno alle ore 14:00, e conclusosi solo in tarda serata, dopo le 22:00, Governo, Commissari dell’Amministrazione straordinaria, ArcelorMittal e sindacati hanno dunque siglato un testo articolato, tecnicamente complesso, che offre alle parti un terreno d’azione che ha il duplice vantaggio di essere non solo condiviso, ma capace di incontrare una delle esigenze più sentite dai lavoratori: quella della sicurezza sul posto di lavoro.
Il che è già qualcosa. E ciò, appunto, non solo perché può portare a miglioramenti effettivi della condizione di chi lavora in impianti la cui manutenzione è stata forse trascurata a partire dall’avvio della crisi, con il sequestro dell’area a caldo disposto dalla Magistratura tarantina nell’ormai lontano 2012; ma anche perché potrà offrire un terreno d’azione, operando sul quale soprattutto i sindacati e l’Azienda, attualmente separati non solo da interessi contrapposti, ma da distanze culturali che rendono difficile una comprensione reciproca, potranno cominciare a capirsi.
Dopodiché, è vero che l’insieme dei problemi sopra esposti, al di là di una serie di dichiarazioni di buona volontà, espresse soprattutto da parte del Governo, rimane ancora sostanzialmente intatto.
In particolare, va rilevato che, a metà pomeriggio, ovvero mentre l’incontro era ancora in corso, l’Azienda, con una procedura inusuale, ha diffuso un comunicato che riassumeva quanto detto, al tavolo del Mise, dall’Ad di ArcelorMittal Italia, il francese Matthieu Jehl. Il quale aveva denunciato che, nelle complesse vicende dell’ex Ilva, “si ha l’impressione che si stia lavorando contro l’Azienda”.
Ora qui va detto chiaramente che non è che questa “impressione” sia basata sul niente. A Taranto e dintorni, e forse non solo lì, ci sono forze che, da anni, puntano più o meno esplicitamente sulla chiusura dell’acciaieria tarantina. Chi in nome di un ambientalismo rigido più che radicale, chi in nome della decrescita, immaginata come “felice”. Una chiusura che, però, non avrebbe solo l’effetto di impoverire drammaticamente la città, ma avrebbe ripercussioni sistemiche molto negative su tutta l’industria metalmeccanica italiana. Cioè sul settore che dà un contributo decisivo al nostro export.
Da anni, tutti dicono e ripetono che l’Italia è la seconda potenza manifatturiera d’Europa. Mentre, come è noto, il centro siderurgico di Taranto è, per capacità produttive, il più importante stabilimento siderurgico del continente.
È intuitivo che, tra questi due fatti, qualche nesso debba pur esserci. Così come è facile capire che una chiusura dell’acciaieria, riducendo drasticamente l’offerta di acciaio prodotto in Italia, porterebbe a una crescita del prezzo di questa sorta di materia prima. Crescita che colpirebbe, in termini anche esiziali, non tanto o non solo le grandi imprese metal meccaniche, ma quelle piccole e medie imprese che costituiscono l’ossatura del nostro modello di sviluppo.
Di fronte a un Governo incerto o confuso, a una Magistratura arrembante, a poteri locali che, a partire dalla regione Puglia, tendono a compiere scelte avventurose, i sindacati sono una delle poche forze sulla cui capacità di conoscenza e di comprensione dei problemi reali ArcelorMittal potrebbe contare, nella sua battaglia volta a confermare la validità delle scelte compiute sbarcando in Italia e ad assicurare un futuro allo stabilimento di Taranto, oltre che agli altri che compongono il Gruppo.
Fin qui, però, non pare che il vertice multinazionale del colosso franco-indiano abbia colto questa semplice verità. E i termini frettolosi con cui è stata annunciata e attuata la decisione relativa al ricorso alla Cassa integrazione stanno lì a dimostrarlo.
L’ipotesi ottimistica è che il punto d’approdo dell’incontro di lunedì 15 possa consentire all’Azienda di cominciare a farsi un’idea più realistica delle virtù dei suoi interlocutori sindacali.
@Fernando_Liuzzi