La stampa reazionaria, come venivano chiamate quelle testate quando non era ancora stato inventato il politicamente corretto, danno Maurizio Landini, il segretario della Cgil, pronto allo sciopero generale. Sta affilando le lame, avvertono, prepariamoci al peggio. In realtà, Landini non ci pensa nemmeno. Non penalizza lo strumento, tutt’altro, ma chiarisce che lo sciopero generale è un’arma da usare con parsimonia, quando è indispensabile, quando non resta altro da fare. E quando si ha qualche certezza che riuscirà bene, sarà efficace. Cosa che al momento non è ipotizzabile, perché non ci sono le premesse necessarie, perché non avrebbe probabilmente con sé la Cisl, forse nemmeno la Uil, perché ci saranno altre occasioni per pensarci, magari quando il governo metterà mano alla legge di bilancio, quando cioè l’esecutivo di Giorgia Meloni dovrà decidere cosa fare per le materie più complesse, fisco e pensioni in primis.
Non siamo quindi alla vigilia di uno scontro sociale, ma questo non significa che non ci sia disagio nella società, anzi, è proprio il contrario. Si parla tanto di precarietà, ma quello che caratterizza l’Italia al momento è soprattutto l’insicurezza, stato d’animo ben più pericoloso. Tanti, troppi non sanno cosa potrà accadere e vedono le loro condizioni, di vita e di lavoro, peggiorare. Anche chi lavora stabilmente sta male, i lavoratori poveri si stanno moltiplicando. La legione di chi vive nell’incertezza del proprio futuro, anche prossimo, sta crescendo. Le statistiche sull’occupazione non danno segnali in rosso, è vero, ma le statistiche non sempre riflettono quanto effettivamente accade. Non fosse che perché l’Istat considera occupato anche chi è occupato due soli giorni al mese: non è disoccupato, ma certo non se la passa bene.
L’esercito di chi sta male è ampio e in aumento, giovani, donne, emigranti, ma anche maschi adulti adesso. La pandemia ha aggravato la situazione. Nei momenti più bui, nei quali peraltro l’Italia ha dato una grande prova di sé, si pensava e soprattutto si sperava che, passata la fase peggiore, saremmo migliorati, tutto andrà bene, si diceva, e invece è accaduto proprio il contrario, stiamo peggio di prima. Incertezza sul futuro, lavori precari, salari bassi, orari non sempre o comunque non per tutti accettabili: l’insicurezza sociale sta pericolosamente crescendo. Se fino a poco tempo fa era la società dei due terzi, un terzo stava male, due terzi bene o benino, adesso si è passati alla società dei due quarti, almeno la metà delle persone sta male, non gode dello sviluppo che pure l’economia sembrerebbe consentire.
Il pericolo vero è che l’insicurezza sociale si sommi all’insicurezza politica. Rischio reale, perché la disaffezione verso la politica, quindi verso le istituzioni, è già una realtà, basti considerare la disaffezione elettorale. Va a votare poco più, spesso poco meno della metà di chi ne ha diritto. E se si realizzasse questa congiunzione a subirne le conseguenze sarebbe il livello di democrazia nel nostro paese, che non potrebbe non risentirne pericolosamente.
A questo stato di cose, si avverte da più parti, non riescono a rispondere i soggetti deputati, i partiti di sinistra e i sindacati. I partiti di sinistra hanno perso da tempo la barra, non capiscono i problemi delle persone, non vedono il disagio che pure è un tratto caratteristico della società. Sono divisi tra loro, di più, rissosi, e questo li rende incapaci di un’azione diretta. Né è credibile un ripensamento, non fosse che perché l’unica scadenza vera sono le elezioni europee del prossimo anno, quando però si voterà secondo il criterio proporzionale, per cui non sono in vista possibili alleanze strategiche.
Diverso il giudizio sui sindacati. Mimmo Carrieri, presentando recentemente il suo ultimo libro, Capitalismi fragili, edizione della Fondazione Feltrinelli, ha affermato che il movimento sindacale nel suo insieme non è stato capace di rispondere alle richieste che provenivano dalla base operaia. Difficoltà ci sono, è indubbio, la spaccatura in due della società ne è testimonianza attiva, ma è difficile dire che la risposta organizzativa alle difficoltà avvertite dai lavoratori non sia stata tentata. Basta guardare ai dati della contrattazione, recentemente riproposti da Adapt.
La negoziazione sta bene, prospera, i contratti vengono rinnovati con soddisfazione, soprattutto nell’industria e nei trasporti. Arrancano nell’area dei servizi e del commercio, ma per la cattiva risposta della parte datoriale. Si può affermare che i sindacati fanno il loro mestiere, ma servirebbe qualcosa in più: maggiore attenzione dai loro interlocutori, soprattutto disponibilità a confrontarsi da parte del governo, che sembra però attento soprattutto a scavalcare la parte sindacale e porsi come vero e unico rappresentante dei lavoratori in una riproposizione di quella disintermediazione che già tanto male ha fatto al mondo del lavoro.
Massimo Mascini