Se c’è un merito che va ascritto a Sergio D’Antoni, l’ex leader della Cisl che il 10 dicembre compie settant’anni, è quello di essere stato sempre coerente con le sue idee. L’ho conosciuto tanti anni fa in Sicilia quando io ero un giornalista alle prime armi e lui un brillante dirigente sindacale della Cisl. “Vorrei farle un’intervista sui problemi irrisolti del Sud”, gli chiesi un giorno quasi timidamente. E D’Antoni si mise a rispondere alle mie domande con diligente accuratezza, come se avesse davanti un cronista del “Times”. Per lui i giornalisti sono tutti meritevoli di rispetto.
Mi colpirono le sue mani affilate, bianchissime, con le unghie curate. Ogni tanto si sfilava la fede dall’anulare, la faceva ruotare tra le dita e poi se la rinfilava, sorridendo quasi con una punta di soddisfazione. Da buon siciliano, lui ha sempre curato il suo aspetto. Vestiti di taglio sartoriale, camicie ben stirate, scarpe cucite a mano, capelli sempre a puntino. Ma non è uno spendaccione, anzi, è un uomo, al di là delle apparenze, semplice, parco, che conosce il valore del denaro, la fatica che ci vuole per arrivare alla fine del mese.
Sindacalista vulcanico, politico convinto meridionalista, uomo di sport tra i più competenti: D’Antoni è nato a Caltanissetta, nel cuore del latifondo siciliano, dove in estate il termometro non scende mai sotto i quaranta gradi.Le sue origini sono legate alla saggezza del mondo contadino, ai cibi semplici della sua terra, alle processioni della Madonna del venerdì santo. Il padre era un impiegato di banca, un galantuomo che aveva fatto enormi sacrifici per la famiglia. La madre, una donna caparbia, generosa, che aveva sempre cercato di aiutare gli altri. Quando gli parlavano dei suoi figli diceva: “Uno fa il medico (e sorrideva). L’altro, Sergio è avvocato, ma purtroppo, vuole fare il sindacalista”. Fu quasi una folgorazione.
A D’Antoni, insieme ad altri giovani ricercatori universitari palermitani cresciuti a ridosso del sessantotto, il sindacato apparve come “l’angelo vendicatore” della condizione operaia, come scriveva Walter Tobagi, vittima a soli trentatré anni del terrorismo rosso. Partendo dal sindacato si poteva cambiare anche la politica ed il sistema dei partiti in Sicilia, rinnovare i gruppi dirigenti, rovesciare quanto di vecchio ed ingiusto s’annidava sotto la crosta della società. Un progetto ambizioso, per certi versi pericoloso, coltivato al fianco di uomini valorosi come Piersanti Mattarella e Rosario Nicoletti che si battevano per rinnovare la Democrazia Cristiana e contro le interferenze della mafia nel tessuto politico e sociale. D’Antoni non è mai stato un “cooptato”.
Pur essendo un apprezzato ricercatore universitario, aveva scelto di cominciare dai cantieri navali di Palermo e dalle infuocate assemblee alla Fiat dei metalmeccanici di Termini Imerese. Poi aveva scalato i vertici della Cisl siciliana fino ad arrivare alla segreteria generale della Cisl nel 1991, dopo l’uscita di Franco Marini. Lo chiamavano il ” panzer” per quella sua capacità di spianare ogni asperità, e soprattutto i suoi avversari politici. A Milano nel 1992 davanti agli autonomi che caricavano la polizia, rifiutò gli schermi di plexiglass per finire il suo comizio. Ricevette in faccia un bullone, che conserva ancora come un amuleto, ma la piazza capì il suo gesto e la sua determinazione e cacciò i contestatori consentendogli di finire il suo discorso. Sergio ha sempre amato la sfida. E’ una cosa che gli è quasi congeniale.
E’ stato sempre un uomo di centro, un idealista che è arrivato a 45 anni alla guida della Cisl (il primo meridionale nella storia del sindacato cattolico), proprio nel momento in cui Tangentopoli metteva fine alla prima Repubblica. Quando nel 1992 il sistema dei partiti di massa è scomparso, D’Antoni ha giocato una partita difficile. Ha rafforzato il ruolo autonomo del sindacato dalla politica attraverso la concertazione e con la proposta di costruire un nuovo sindacato unitario, influente nelle decisioni di qualsiasi governo. Senza quella sua scelta dei primi anni novanta, il sindacalismo italiano sarebbe stato spazzato via dal bipolarismo.
Nel sistema maggioritario il sindacato diventa un soggetto centrale se partecipa alle grandi scelte di politica economica e, soprattutto, se dimostra di essere propositivo e riformista. Se fa solo massimalismo, antagonismo, opposizione sociale nelle piazze e nei posti di lavoro, diventa solo una ‘spalla’, una stampella della minoranza. Questa è stata la battaglia di D’Antoni nel decennio in cui è stato alla guida della Cisl, con proposte lungimiranti, osteggiato dai poteri forti che non vedevano di buon occhio un sindacalista meridionale che parlava di democrazia economica, di “minimum tax” per combattere l’evasione fiscale, di partecipazione dei lavoratori al capitale e nei consigli d’amministrazione, di contratti legati alla produttività sia nel mondo privato sia nel pubblico impiego.
Da Segretario della Cisl, contrastò la concezione del governo “amico”, scendendo in piazza, contro le scelte sbagliate sia del centro-sinistra, sia del centro- destra, giudicando in autonomia le proposte e le decisioni delle varie maggioranze. Senza fare sconti a nessuno. Non è vero che voleva fare della Cisl un ‘partito politico’. La sua idea era quella di un rapporto paritario tra sindacato e partiti, senza subalternità reciproche. Tuttavia, fu tra i primi a parlare nel luglio del 1994 della esigenza di costruire in Italia un partito ‘democratico’ che potesse far incontrare, senza egemonie da parte della sinistra, la cultura cattolica e quella laica e socialista.
L’unità sindacale nel suo schema avrebbe fatto da “incubatore”, anticipando nella società civile i processi di aggregazione politica. Ma Cofferati, allora leader della Cgil, non seppe cogliere la portata del progetto unitario lanciato da D’Antoni. Fu un errore storico. Sarebbe stata la strada responsabile anche per prevenire i conflitti sociali, favorire uno sviluppo equilibrato del Mezzogiorno e affrontare con la contrattazione i problemi delle famiglie e dei ceti più bisognosi. In fondo la differenza tra declino o rinascita di un paese sta nel governare le trasformazioni, ponendo in primo piano l’interesse nazionale e la coesione sociale. Era il sogno della generazione di Sergio D’Antoni, che oggi in piena forma e con il suo entusiasmo sempre contagioso, si occupa solo di sport alla guida del Coni siciliano, “senza gettoni di presenza”, ma attento ai bisogni delle società e dei giovani, consapevole che anche con lo sport si può costruire un’Italia moderna, più vicina alle ragioni dei poveri e dei più bisognosi, solidale tra le aree forti e quelle più deboli.