Isabel Schnabel è l’economista tedesca che siede nel board della Bce e, negli ultimi mesi, è stata la portavoce più esplicita – spesso anticipando Christine Lagarde – delle tesi dei “falchi”, in particolare della necessità stringente di continuare ad aumentare i tassi di interesse, costi quel che costi, per domare l’inflazione. Una determinazione che si appoggia, però, su una situazione potenzialmente esplosiva.
Lo racconta un grafico che la stessa Schnabel ha presentato, qualche giorno fa, ad un seminario: rispetto alla fine del 2021, i salari di fatto sono aumentati, nell’eurozona, del 3,6 per cento. Ma, al netto dell’inflazione, i salari reali europei sono diminuiti del 5 per cento. Un dato che si può leggere in due modi. La prima lettura è quanto l’inflazione stia devastando i bilanci delle famiglie e di quanto sia importante fermarla. La seconda lettura, però, è che la situazione sta diventando insostenibile. Come una molla caricata sempre più, prima o poi la pressione salariale esploderà e il rimbalzo, troppo a lungo rinviato, può essere fuori misura. Con il risultato, paradossale, di realizzare nei fatti proprio il grande timore della Schnabel: una vampata salariale che incisti nelle aspettative l’inflazione.
Il rischio è anche più vero per l’Italia, dove l’inflazione è stata mediamente più alta – per via del peso dell’energia: elettricità, gas, benzina – del resto dell’eurozona e la crescita dei salari contrattuali di poco superiore all’1 per cento, la caduta dei salari reali, di conseguenza, anche più brutale. Come andrà a finire? Pensate ad una pentola a pressione, in cui il vapore si accumula: è la valvola di sfogo che impedisce l’esplosione della pentola, garantendo che la pressione non superi la soglia di pericolo.
Ma la valvola della pentola dei salari è bloccata, in Italia più che altrove. In media, infatti, nell’eurozona, i profitti delle aziende sono saliti, rispetto al periodo prepandemia, del 12 per cento. In Italia, invece, spiegano gli analisti di Unicredit, i profitti sono scesi del 2-3 per cento, rispetto alla fine del 2019. In questa situazione, la politica restrittiva della Bce strangola ulteriormente i margini delle imprese. I tassi praticati dalle banche europee sui crediti sono cresciuti dell’1,6-2 per cento, con il risultato di far crollare del 20 per cento le richieste di prestiti.
Non finisce qui. Vi ricordate le aziende zombie? Sono le imprese pericolanti che il flusso di sussidi scaturito dai vari provvedimenti governativi per frenare gli effetti di pandemia e lockdown sull’economia ha mantenuto in vita, assai al di là dei loro meriti. Era un problema non solo italiano, ma di tutta Europa. E, ora, la bolla sta esplodendo. Il numero dei fallimenti, nell’eurozona, è il più alto da anni: fra l’estate e l’autunno 2022 sono cresciuti del 27 per cento. Il fenomeno è alimentato soprattutto dalla Spagna, dove le modifiche che hanno reso più semplici le procedure fallimentari hanno moltiplicato i casi di bancarotta. In Italia, anzi, il numero dei fallimenti si è ulteriormente ridotto nel 2022, ma molti temono che sia solo una dilazione per una bolla destinata comunque a scoppiare.
Insomma, dopo le paure dell’autunno, un andamento dell’economia superiore alle aspettative e la recessione evitata hanno generato molto ottimismo, anche in Italia. Ma la realtà è di grande fragilità. Fra una inaggirabile pressione salariale e una debolezza delle imprese si è aperto un crepaccio che il governo non pare intenzionato a riempire con una propria iniziativa e che la politica della Bce continua ad allargare. Caderci dentro non è inevitabile. L’inflazione italiana, alimentata più che altrove dall’energia, cadrà, proprio perché i prezzi dell’energia stanno ripiegando velocemente, più rapidamente che nel resto dell’eurozona, prevedono gli analisti di Unicredit. Un po’ come se qualcuno avesse abbassato il gas del fornello sotto la pentola: un po’ di tempo in più per far funzionare la valvola.
Maurizio Ricci