Il 14 luglio è entrato in vigore il decreto legge recante “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, il c.d. “decreto dignità”. Molto si è detto nelle scorse settimane, prima e dopo la sua approvazione, in quanto, di fatto, costituisce il primo provvedimento di particolare impatto economico e sociale del nuovo Governo.
Il decreto contiene misure e adotta strumenti che renderanno più incerto e imprevedibile il quadro delle regole in cui operano le aziende, con il rischio di disincentivare gli investimenti, quando è necessario assicurare stabilità e certezza al quadro regolatorio e non alimentare aspettative negative da parte degli operatori economici, facendo retromarce sui processi di riforma avviati.
Il provvedimento in particolare rende più difficoltoso il ricorso ai contratti a termine imputando di fatto a questi strumenti la precarizzazione dei rapporti di lavoro.
La durata complessiva dei contratti a tempo, come ormai è noto, scende da 36 a 24 mesi e il numero delle proroghe ammissibili passa da cinque a quattro. Dopo i primi dodici mesi ritorna la necessità di indicare le causali, in assenza il contratto si trasforma in tempo indeterminato.
Il dibattito parlamentare – appena concluso l’iter presso la Camera – e il confronto politico-sindacale che sta accompagnando la conversione in legge del decreto è ricco. Sono tanti i punti del provvedimento che fanno discutere. Tra i difetti evidenziati anche da una recente ricerca fatta da Astra Ricerche per conto di Manageritalia c’è proprio la reintroduzione dell’obbligo del giustificato motivo per le proroghe del contratto a termine: le causali saranno fonte di controversie giudiziarie e molte imprese preferiranno non rimanere coinvolte nelle liti e preferiranno non rinnovare i contratti. Si assumerà così un altro lavoratore con un altro contratto breve, aumentando il precariato che il decreto dignità vorrebbe combattere e si disincentiverà la formazione riducendo in un colpo solo professionalità del personale e produttività. Considerata la causale come un elemento di rischio la volontà di evitarla si tradurrà nell’estinzione del rapporto di lavoro con il concreto rischio che si perdano molti più posti di lavoro degli 8.000 all’anno stimati dal Ministero del Lavoro tramite l’Inps. La percentuale è destinata a salire se poi dovesse esserci un rallentamento della crescita del Pil come sembra sia probabile in base alle ultime previsioni.
La riduzione della durata massima dei contratti e il ripristino di causali general/generiche secondo i manager intervistati non risolverà il problema della precarietà, che tra l’altro non riguarda solo i contratti a termine, che comunque sono all’interno di un sistema di copertura sociale avanzato, ma riguarda soprattutto quei 3,3 milioni di lavoratori irregolari che emergono da una ricerca del gennaio del 2018 del Censis e di Confcooperative. Un sistema sommerso composto da lavoratori in nero, contratti autonomi irregolari, dipendenti mascherati da soci di cooperative che anche un recente rapporto dell’Inps ha confermato aggiungendo la fortissima rischiosità sottesa alla diffusione anomala del part time. Un lato oscuro del mercato del lavoro che questa azione governativa non intende regolamentare, eppure sempre la ricerca del Censis-Confcooperative evidenziava come tra questi precari il salario medio scende da 16 a 8 euro l’ora e l’evasione tributaria e contributiva ammonterebbe a quota 107,7 miliardi di euro: quattro volte la manovra approvata nel 2017. Una straordinaria disattenzione in un Paese alla disperata ricerca di risorse utili a risolvere problemi veri di povertà e ingiustizia e nella necessità di trovare soluzioni per un duraturo sviluppo economico e sociale.
Comunque gli italiani sembrano promuovere il provvedimento, a partire dal nome scelto, decreto dignità, evocativo della difficile situazione vissuta da alcuni milioni di lavoratori, proprio perché suscita aspettative elevate che, purtroppo, non basterà questo decreto a soddisfare.