A leggere distrattamente la notizia dell’Istat sul rinnovo dei contratti c’è da pensare che il sindacato davvero non funzioni. Questa afferma infatti che un terzo circa dei dipendenti non ha ancora il contratto, nonostante quello vecchio sia già scaduto, e che per rinnovare un contratto servono 32 mesi. Poi si legge con più attenzione, ma non è detto che tutti lo facciano, e ci si accorge che è vero che un lavoratore su tre non ha ancora il suo contratto nuovo, ma perché una legge da più di due anni ha stabilito il blocco totale della contrattazione. Nell’industria e nell’agricoltura sono solo due i tavoli contrattuali ancora aperti, quello della carta e quello degli impiegati agricoli. Più cospicuo il pacchetto dei contratti aperti nei servizi (dei quali fanno parte anche le telecomunicazioni, di solito considerati peraltro industria), ma qui si sconta la presenza di settori molto poco strutturati, oltre ai ferrotranviari, il rinnovo del contratto dei quali è fermo perché gli enti locali non hanno più risorse per gli aumenti salariali.
Insomma, sarà anche vero che un lavoratore su tre aspetta il suoi contratto, ma per colpa di una legge, che blocca i pubblici, e di settori da considerare marginali. Il grosso, tutta l’industria e tutto il commercio, non ha problemi. E del resto, sarebbe strano il contrario se si pensa che non solo l’industria rinnova sempre sollecitamente i contratti, ma a volte, come è successo tre settimane fa per i chimici, anche qualche mese prima della scadenza, al punto da decidere di anticipare anche l’applicazione delle nuove norme.
C’è un motivo alla base di questa celerità, la decisione, presa con l’accordo del 2009 sull’assetto della contrattazione, di applicare le nuove disposizioni contrattuali, in particolare gli aumenti salariali, non dal momento in cui si raggiunge l’accordo, ma da quello in cui è scaduto il vecchio contratto. Prima che si stipulasse questo accordo, le trattative andavano avanti sempre lentamente, perché almeno una parte, quella datoriale, non aveva poi questa gran fretta di concludere un accordo e dover di conseguenza applicare gli aumenti. C’era sempre negli accordi di rinnovo un riferimento salariale a copertura del tempo passato dopo la scadenza, ma era sempre un’una tantum, per definizione quantitativamente minore dell’aumento contrattuale. Anche quando fu deciso di applicare comunque un aumento dopo i primi tre mesi dalla scadenza del contratto, l’entità di questi aumenti era sempre molto relativa.
Ma anche l’indicazione dei 32 mesi necessari per rinnovare un contratto non è corretta. II riferimento infatti, che potrebbe anche sfuggire a quella lettura distratta di cui si faceva cenno, è non a tutti i contratti, ma solo a quelli scaduti e non rinnovati. Ossia, l’Istat ci informa che, al momento della rilevazione effettuata, la media di attesa dei contratti scaduti era di 32 mesi. Sembrerebbero molti 32 mesi, quasi tre anni, se non si tenesse conto di quelle circostanze di cui si parlava, il blocco della contrattazione nel pubblico impiego per una legge del 2010 e la paralisi di almeno due dei contratti dei servizi, quello della vigilanza privata e quello degli autoferrotranvieri fermi da anni, vertenze incrostate che non si riesce a sbloccare.
Tanto si è voluto precisare, perché è vero che i sindacati sono lenti e a volte frenano invece di accelerare le novità, ma non per la contrattazione, che è svolta invece assai celermente. Poi si può discutere dei contenuti degli accordi, quali sono davvero innovativi, quali invece percorrono strade vecchie senza capacità di cambiare, di provare la diversità. Ma almeno sui tempi sia dato loro onore.
Massimo Mascini