Gli scioperi generali sono sempre stati un evento divisivo. E non sfugge a questa regola quello proclamato da Cgil e Uil che è oggetto, ormai da alcuni giorni di una discussione animata e spesso ancorata a valutazioni pregiudiziali. Si è alzato un fuoco di fila che investe la stessa legittimità della proclamazione e realizzazione di un evento conflittuale di questa portata.
In tanti coltivano l’illusione che le nostre società post- tutto siano diventate anche società post-conflittuali.
In realtà questa pretesa è chiaramente smentita dai fatti. Nei paesi avanzati i livelli di insicurezza, acuiti dalla pandemia, non sono mai stati così elevati. E l’Italia non solo non fa eccezione rispetto a questa regola, ma ne appare – dati alla mano – l’incarnazione perfetta.
Tensioni e conflitti lungi dallo sparire sono tanti e ci circondano.
Il punto è se li si vuole incanalare e rappresentare, o li si vuole lasciare alla spontaneità confusa e al rischio di jacqueries tanto esagerate quanto anti-istituzionali. Una parte delle tensioni attuali si sono tradotte nei conflitti e nelle contrapposizioni tipiche della nuova era che stiamo vivendo e riguardano i vaccini.
Dobbiamo essere grati se una parte importante del movimento sindacale si candida a fornire uno sbocco a questo sentimento collettivo di insoddisfazione sociale (peraltro fondato su forti basi materiali). Appare dunque importante, nel quadro attuale, che ogni questione in gioco non sia riconducibile all’asse si vax/no vax come se questa, per quanto rilevante, fosse l’unica frattura presente nelle nostre società: tale da dare vita ad un cleavage – come lo definiscono i politologi – che assorbe tendenzialmente tutti gli altri. Invece in campo restano e sono altrettanto rilevanti, anche se spesso in ombra nel discorso pubblico, i nodi irrisolti del lavoro e dell’occupazione e le tante disuguaglianze che la Pandemia ha alimentato e fatto venire allo scoperto.
Che lo sciopero generale non sia un campo obsoleto lo si può arguire dalle tante reazioni che ha suscitato riorientando anche larga parte delle posizioni degli attori politici e istituzionali in vista della definizione della legge di bilancio. Non siamo di fronte ai fasti del passato, quando, nei primi anni settanta, la proclamazione di uno scioperò generale costrinse alle dimissioni il governo Rumor. Ma permane comunque un evidente potere di minaccia, che condiziona gli atteggiamenti dell’intero spettro politico. Quindi se i sindacati volevano avere una conferma che per certi versi contano nel nostro Paese, nonostante i ripetuti tentativi di disintermediazione, l’utilizzo di questo ‘potere vulnerante’ ha decisamente colpito nel segno.
Inoltre Cgil e Uil, che sono i protagonisti di questa azione, non possono neppure essere accusati , come fa qualcuno, di occuparsi solo degli insiders e dei garantiti. In effetti questo sciopero mira a tutelare, sul piano fiscale, i redditi più bassi: tra i quali sono decisamente sovradimensionati quei gruppi deboli, come precari e outsiders, che cadono più facilmente nella trappola dei bassi salari.
Quindi non è possibile mettere in discussione la legittimità e la stessa utilità di uno sciopero come quello di cui stiamo parlando.
Sono altre le chiavi che vanno adottate per mettere a fuoco se tale azione, oltre che utile, possa plausibilmente risultare efficace nel raggiungimento degli obiettivi che si propone.
In tal senso possiamo considerare lo sciopero generale come un’arma a doppio taglio.
Infatti da un lato si presenta come uno strumento che rende visibile ed aumenta il potere contrattuale del sindacato. Abbiamo già visto come in tal caso esso goda di un elevato potere di minaccia: che spesso è considerato sufficiente per produrre gli esiti desiderati tanto da non arrivare neanche all’effettuazione dello sciopero.
Ma d’altra parte, ed in modo paradossale, lo sciopero generale è una sorta di extrema ratio, ed anche sintomo di debolezza. In uno studio di una quarantina d’anni fa due studiosi, uno svedese e l’altro israeliano, Korpi e Shalev, esaminando alcune serie storiche di dati comparati arrivavano alla conclusione che il volume maggiore di scioperi si addensasse nei paesi con sindacati più deboli. I sindacati più forti, concentrati in prevalenza nell’area nordica, scioperavano poco e niente. E la loro tesi era che questo accadeva in quanto essi già detenevano un elevato potere di influenza politica, in ragione del quale non avevano bisogno di ricorrere al conflitto per raggiungere i loro principali obiettivi.
In parte le cose sono cambiate da allora, ma non vi è dubbio che il ricorso allo sciopero diventa necessario in mancanza di altre modalità più funzionali agli scopi delle organizzazioni sindacali. Insomma se il loro accesso alle decisioni pubbliche nell’arena politica è debole e incerto questa situazione può essere modificata – si può tentare di modificarla – mediante il ricorso al conflitto aperto.
Qui tocchiamo il dente dolente di molti commenti di questi giorni.
Si può considerare giusta l’idea di scioperare contro un governo, come quello Draghi, che secondo larga parte dei media e della stessa opinione pubblica condensa l’idea stessa di una sorta di ‘patto nazionale’ ?
Come sappiamo però la suggestione, caldeggiata da tanti, di lavorare per costruire un vero e proprio ‘patto sociale’, anche se con percorsi e struttura diversi rispetto a quelli della passata concertazione, non ha decollato. Insomma Draghi impersona un forte bisogno di coesione nazionale e di efficienza economica (legata in particolare alla gestione del PNRR), ma non ha dato vita ad un accordo forte, esplicito o implicito, con le parti sociali. La regia e la gestione delle decisioni principali e dei fondi europei appare molto concentrata: in mani certo abbastanza competenti, ma con un coinvolgimento molto limitato e non orientato ad includere pienamente gli attori sociali.
L’assenza di un patto sociale vero e proprio, compensata solo in parte da una maggiore disponibilità al confronto, ha aperto comunque un varco nel quale si sono infilati i sindacati con le loro richieste ed insoddisfazioni
E’ difficile scioperare contro un governo ‘non nemico’ e con un Presidente considerato super partes. Ma nello stesso tempo bisogna considerare come anche questo governo non sia sfuggito all’illusione di poter decidere facendo a meno, salvo che negli aspetti istruttori, di una trattativa o di un accordo con le parti sociali.
In questa direzione non aiutano però neanche le divisioni tra le organizzazioni che rappresentano i grandi interesse. La Confindustria chiede un grande patto, ma nello stesso tempo spara in primo luogo bordate contro i suoi interlocutori sindacali invece di puntare a definire obiettivi comuni. E La Cisl, l’organizzazione che più ha evocato il patto sociale, è quella che oggi si è esplicitamente sfilata dalla scelta del conflitto operata dalle altre due Confederazioni.
Il quadro è segmentato e non aiuta a formulare scelte semplici e nette.
Il timore è che i sindacati proclamanti, che pure hanno aperto una discussione, specie nel Pd, si trovino alla fine privi di una vera sponda.
Infatti il tema sollevato da Cgil e Uil di un riequilibrio a vantaggio dei redditi più bassi avrebbe dovuto mobilitare primariamente il Pd, che nel suo insieme vive questa vicenda come un imprevisto fastidioso. L’ultima volta che si è occupato dei redditi più bassi è stato con Renzi nel 2014, attraverso l’erogazione dei famosi 80 euro a loro favore: quella mossa, come è noto, contribuì anche ad un notevole successo elettorale.
In realtà sarebbe proprio il Partito Democratico, ridotto al 18-20% dei consensi, ad avere bisogno di questa platea. La platea della working class, che lo ha chiaramente abbandonato negli ultimi anni per rivolgersi ad altri rappresentanti politici. Certo l’equità distributiva deve avere uno sguardo lungo, e per questa ragione la sinistra politica dovrebbe svolgere una funzione ampia, ed operare per tenere uniti i lavoratori manuali a basso reddito e il ceto medio impoverito: è da questa miscela che nasce – nelle intenzioni di voto – la destra più forte d’Europa cui sono notoriamente accreditati più del 40% dei consensi.
Può muoversi da solo su questo terreno il sindacato senza una sponda e un progetto condivisi con la sinistra riformista? Già in passato, e non solo nel caso italiano, la scelta dell’autosufficienza sindacale non ha pagato. E d’altra parte davanti a noi si configura uno scenario molto lontano da quella interdipendenza virtuosa che vede sindacati e partiti ‘amici’ cooperare per raggiungere obiettivi comuni.
Come si vede i dilemmi con cui fare i conti sono maggiori e più profondi rispetto alle semplificazioni circolanti.
In una società complessa diventa più difficile valutare la riuscita di questo evento, che va misurata in modo differente dall’epoca eroica degli scioperi generali: quindi non solo il seguito sociale, ma anche gli effetti sull’economia, la capacità di influenzare tutti gli attori politici e istituzionali, di condizionare la percezione dei cittadini nel dibattito pubblico, sui media e sui social, etc.
E nello stesso tempo uno sciopero senza un ‘idea comune, almeno con una parte dei soggetti politici in campo, rischia di essere privo di una prospettiva di medio periodo. Dilemmi che non è facile sciogliere positivamente.
Quello che si può dire è che già la minaccia dello sciopero – la messa in moto della macchina del potere vulnerante – è bastata a ricordare la rilevanza dei sindacati, condizionando il tavolo delle scelte, il comportamento degli attori e l’intero dibattito pubblico. Un risultato abbastanza significativo, e un chiaro condizionamento dell’agenda politica, che forse in questo momento può apparire come già sufficiente.
Mimmo Carrieri