Ha compiuto quarant’anni questa settimana l’accordo di San Valentino. Un accordo separato, che non ebbe la firma della Cgil. E ruppe l’unità di questa confederazione, perché la componente socialista avrebbe firmato l’intesa, non poté farlo perché era solo una parte e nemmeno maggioritaria della confederazione. Fu questa la vera prima picconata al sistema di scala mobile, il sistema automatico di crescita dei salari che adesso le nuove generazioni leggono solo sui libri di storia. Ci aveva provato un anno prima, il 23 gennaio del 1983, Enzo Scotti, ministro del Lavoro di uno dei tanti governi Leone. Ma non aveva inciso davvero, lo aveva solo scalfito.
Il nuovo governo, insediato il 4 agosto del 1983, aveva altre ambizioni. Lo presiedeva Bettino Craxi ed era la prima volta che un socialista arrivava a Palazzo Chigi. Tra i diversi suoi obiettivi c’era anche la scala mobile, meccanismo pieno di difetti, che alimentava l’inflazione ed erodeva il potere di acquisto dei salari reali danneggiando i lavoratori. Le trattative per un nuovo accordo iniziarono subito e dopo pochi mesi, all’inizio del nuovo anno, la mappa dei consensi e dei dissensi era delineata. Governo, Confindustria, Cisl e Uil volevano far saltare qualche scatto della contingenza per raffreddare l’inflazione, che era salita sopra il 20%, pericoloso livello sudamericano.
Erano d’accordo anche i socialisti della Cgil, ma contro l’intesa si schierò la componente comunista, maggioritaria nella confederazione, e soprattutto il Pci. Il Partito comunista, guidato da Enrico Berlinguer, aveva le sue ragioni. Perché alla base dell’offensiva craxiana, c’era la volontà, ampiamente manifestata, di forzare quel sistema politico che dalla fine della guerra vedeva il Pci escluso dalla gestione della vita politica del paese, ma partecipe di tutte le decisioni più importanti che attenevano alla materia sociale.
Al centro del confronto, il sindacato, che stava per perdere la sua unità. I tentativi di trovare una via unitaria si susseguirono con intensità, fino a una drammatica riunione dei tre direttivi di Cgil, Cisl e Uil che ebbe luogo a Roma, all’Hotel Midas una settimana prima dell’atto definitivo. Si confrontarono due diverse soluzioni del nodo della scala mobile, ma un accordo era impossibile. Ricordo nettamente una pausa dei lavori dei tre direttivi in quella mattinata infuocata nella quale i leader delle tre confederazioni cercarono di uscire dall’impasse in una serie di confronti a due o a tre, su un piccolo divano in un corridoio laterale dell’albergo, senza riuscire però a mettersi d’accordo su una soluzione unitaria. Alla fine, fu Pierre Carniti ad andare al microfono e, con la voce rotta dall’emozione, dichiarare che la riunione era terminata perché non c’era un accordo.
Poi fu tutta una corsa, per un anno intero. Prima l’accordo separato, poi la morte di Berlinguer, la decisione del Pci di andare a un referendum abrogativo che risistemasse le cose, la Cgil costretta a partecipare alla campagna referendaria, infine il referendum vinto a sorpresa da chi aveva voluto l’accordo di San Valentino e lo aveva difeso contro tutti. Un risultato che alla vigilia sembrava impossibile. Perché si chiedeva ai cittadini, quindi ai lavoratori, se volevano che fossero rimessi in busta paga quelle 20mila lire che l’accordo di San Valentino aveva tolto.
Sembrava impossibile, ma chi aveva voluto quell’accordo vinse, anche con un ampio distacco. I lavoratori, come emerse da successivi controlli, votarono in maggioranza a favore dell’intesa. Avevano capito che far vincere il referendum al Pci avrebbe portato dei soldi nelle loro tasche, ma avrebbe lasciato integro il meccanismo della scala mobile, che alimentava l’inflazione e danneggiava i salari. Contò certamente il fatto che l’inflazione, grazie a quell’accordo, aveva già iniziato a scendere.
A perdere fu il sindacato, tutto, anche quella parte che aveva vinto perché aveva voluto e poi difeso l’accordo. Ma anche quella parte perse perché il confronto era diventato esclusivamente politico e il protagonismo sindacale era rimasto in ombra. Il sindacato si era diviso, profondamente, e questa spaccatura era arrivata fino alle fabbriche, la battaglia era diventata durissima, tra le due parti si era alzato un muro che solo una lunga, successiva azione riuscì parzialmente ad abbattere. L’unità sindacale rappresenta un bene assoluto, ha ragione il grido che il popolo unito non sarà mai vinto. Le divisioni, anche quando nascono da motivi validi, fanno sempre male e indeboliscono la rappresentanza dei lavoratori.
Lo sapeva bene Luciano Lama che il 24 marzo 1984, a Piazza San Giovanni, nella manifestazione dopo l’accordo separato, dedicò il suo comizio alla necessità di ricucire l’unità con Cisl e Uil. Dobbiamo assolutamente tornare uniti, disse il capo della Cgil a una piazza che forse non capiva, ma si trovò d’accordo con lui, come sempre. E nel pomeriggio del giorno prima, il 23 marzo, aveva fatto avere ai leader di Cisl e Uil, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto, il testo del discorso del giorno seguente, per rassicurarli, perché non si spegnesse la fiamma dell’unità.
Massimo Mascini