Il Servizio Sanitario nazionale nasceva 40 anni fa con il varo della legge 833 firmata dall’allora Ministro democristiano della Sanità On. Tina Anselmi.
Una riforma approvata in sordina a dicembre 1978, “distrattamente” come ebbe a dire Luciana Castellina e come ci ricorda l’Espresso, ma che era il frutto di un decennio di lotte per la salute che aveva visto impegnarsi insieme nelle fabbriche, nelle università e nelle piazze operai, studenti e intellettuali come Maccacaro, Benigni, Seppilli e tanti altri.
Una legge che mandava in soffitta il vecchio sistema mutualistico, segmentato e confuso e introduceva un principio semplicissimo quello della eguaglianza e dell’universalismo delle cure per tutti i cittadini senza distinzione di censo, professione, residenza e colore della pelle.
Quel modello imperniato su prevenzione, presa in carico del paziente, partecipazione dei cittadini e integrazione tra bisogni di salute e sociali era troppo innovativo per essere apprezzato dalla classe politica del tempo; un ceto politico abituato al compromesso al ribasso, piegato alle logiche dei governi di coalizione di quegli anni e che, dopo avere votato la legge quasi per sbaglio, fece di tutto per neutralizzarla non dando seguito ai suoi dispositivi applicativi: in primis il Piano sanitario nazionale
Negli anni ’90 inizia la grande stagione della controriforma. Il campo istituzionale viene colonizzato dalle parole d’ordine della privatizzazione dei servizi e della superiorità della gestione aziendalistica delle strutture sanitarie.
Un inganno, un bluff dalle conseguenze disastrose che indurrà un peggioramento dei conti pubblici e nessun miglioramento del servizio.
Negli anni 2000 al danno si aggiungono le beffe della devoluzione istituzionale con la confusa riforma costituzionale del titolo V
Anche in questo caso all’incapacità della politica di gestire in modo accettabile i beni pubblici, mettendo in campo regole più stringenti su controllo della spesa e trasparenza amministrativa, si risponde spostando il problema a un meta livello; scaricando le responsabilità delle storiche inefficienze del paese sul quadro macro della ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni.
Un ulteriore fallimento con un drammatico peggioramento dei conti del paese Italia e una accentuazione delle differenze tra i vari territori
Oggi a 40 anni distanza da quella grande riforma che istituì il Servizio Sanitario Nazionale siamo a celebrare il fallimento dei numerosi tentativi di disapplicarla senza avere ottenuto alcun miglioramento reale; di puro e semplice maquillage per coprire un sostanziale continuismo gestionale della cosa pubblica
Un report del Ministero della salute pubblicato pochi giorni orsono sull’andamento dei Piani di rientro dal debito sanitario delle regioni e dei livelli di erogazione dell’assistenza nei vari ambiti territoriali è la certificazione della inutilità della devoluzione sanitaria e dell’epidemia di riforme iniziate negli anni ‘90.
Sette regioni (Puglia, Abruzzo, Sicilia, Calabria, Campania, Lazio e Molise) sono ancora oggi sottoposte alla disciplina dei Piani di rientro,
mentre altre quattro ne sono uscite nel corso del tempo: Liguria e Sardegna al termine del primo triennio di vigenza 2007-2009; Piemonte al termine del triennio 2013-2015 e Abruzzo, nel 2016
In totale sono 11 le regioni che senza un regime di stretto controllo da parte dello Stato centrale, che ha interdetto loro la possibilità di legiferare autonomamente, avrebbero portato i loro libri in tribunale attivando le procedure fallimentari
Le uniche regioni indenni sono state quelle del Nord tradizionalmente ben gestite, aldilà del colore delle loro amministrazioni. Regioni in cui la buona amministrazione della cosa pubblica è stata resa possibile dalla partecipazione democratica dei cittadini che da sempre sono affetti da quella malattia sconosciuta nel resto del paese e oggi purtroppo disincentivata nella nuova stagione dell’odio verso l’altro, che si chiama “civismo
Gran parte delle regioni italiane sono state seppellite dai loro debiti e dalla loro incapacità di amministrare i beni pubblici loro affidati valorizzando gli asset di cui dispongono, in primis la risorsa professionale
Il modello di sanità regionalizzata è stato superato dai fatti per manifesta inadeguatezza e il poco di buono che si è recuperato è stato solo grazie alla scura del MEF che ha imposto ai recalcitranti presidenti di regione misure di razionalizzazione della spesa, deprivandoli di ogni autonoma capacità di determinazione
Senza lo Stato centrale e il rigido controllo dei trasferimenti monetari forse nessuna regione avrebbe mantenuto un accettabile controllo della spesa, fermo restando che senza adeguati finanziamenti il livello di qualità sarà destinato a peggiorare. Non solo nelle regioni canaglia ma anche in quei territori tradizionalmente ben amministrati.
È anche a fronte di queste considerazioni che la grande legge di riforma di istituzione del servizio sanitario nazionale del 1978 non deve essere ricordata come un cimelio storico. Quella legge è ancora oggi un progetto rimasto incompiuto per inadeguatezza della classe politica del paese.
Anche questa una costante della nostra storia che le attuali vicende politiche riconfermano senza possibilità di dubbio.
Roberto Polillo