Il ritorno alla normalità dopo la pandemia ha un po’ rallentato la crescita dei pagamenti digitali in Italia, ma non è riuscita a fermare l’inarrestabile diffusione di questo strumento nella vita di tutti i giorni, in tutte le regioni e nelle diverse fasce reddituali e di età dei consumatori.
Questo fenomeno sta producendo effetti economici e sociali di non poco conto e tuttavia si stenta a prenderne atto negli studi e nelle indagini che si susseguono sulla realtà nazionale.
Qualche dato può essere utile per inquadrare il tema. Tanto per fare alcuni esempi: le ultime stime dell’Istat indicano che nel 2023 le vendite al dettaglio in Italia sono cresciute dello 0,3 per cento se misurate sulla base del valore, ma diminuite del 3,2 per cento se misurate in volume. Secondo i dati dell’Osservatorio Innovative Payments della School of Management del Politecnico di Milano, presentato in occasione del Convegno “I pagamenti digitali in Italia nel 2023”, nel primo semestre del 2023 il transato dei pagamenti digitali in Italia ha raggiunto quota 206 miliardi di euro, in crescita del 13 per cento sullo stesso periodo del 2022. Per l’intero 2023 si stima un ammontare complessivo intorno ai 400 miliardi di euro; un dato che comincia a contendere al denaro contante la palma dello strumento più usato per gli acquisti in Italia.
Certo, i pagamenti digitali non riguardano solo le vendite al dettaglio: ci sono i servizi, la ristorazione, il turismo, eccetera. Ma la differenza tra i due andamenti resta significativa.
Il cambiamento è davvero importante per un paese che ha nell’opacità dei fatturati, della regolarizzazione del lavoro, del rispetto in genere delle regole una delle caratteristiche di fondo. Basti qui ricordare l’ultimo aggiornamento della relazione sull’economia sommersa rilasciato dal ministero dell’Economia a gennaio: per l’anno 2021 si calcola che siano mancati all’appello 30 miliardi di euro per l’Irpef dei lavoratori autonomi e delle imprese e 3,9 miliardi per l’Irpef dei lavoratori dipendenti; 8,5 miliardi per l’Ires, 18 miliardi per l’Iva, 4,6 miliardi per l’Irap, 5 miliardi per l’Imu e 10,3 miliardi per i contributi (2,4 a carico dei dipendenti e 7,9 per i datori di lavoro).
Nel mezzo di questo ammasso di dati che fanno cadere le braccia vi sono tuttavia alcune tendenze interessanti. Piccoli cambiamenti dovuti forse (diciamo che per il momento è una suggestione) proprio alla diffusione sociale, all’abitudine a pagare con i mezzi digitali invece che in contanti.
La tracciabilità dei pagamenti obbliga infatti proprio le categorie in cui si annida maggiormente l’evasione fiscale e contributiva (lo dice nero su bianco il Mef: lavoro autonomo e piccola impresa) a dover fare emergere almeno qualcosa dei propri fatturati e delle persone che lavorano nella propria attività. Tanto per dire, nella tabella delle componenti dell’economia sommersa del Mef si può leggere che il lavoro irregolare rappresentava nel 2018 il 4,9 per cento dell’intera economia sommersa, allora calcolata in quasi 189 miliardi di euro e nel 2021, con un’economia sommersa stimata in 173,8 miliardi, il 4,2 per cento. Piccoli movimenti, certo, ma significativi. Tanto più che, con la tumultuosa crescita dei pagamenti elettronici nel 2022 e nel 2023, la spinta alla necessità di far fronte alla tracciabilità è cresciuta ancora.
Da questo punto di vista potrebbe non essere solo una suggestione l’idea che la parziale necessità di emersione dovuta al fatturato ormai tracciabile abbia contribuito a spingere un pochino in alto anche i dati dell’occupazione “regolare”, pur in un contesto di più che modesta crescita del Prodotto interno lordo.
Molto si è dibattuto in questi mesi sulla strana e inedita sfasatura di dati. La tracciabilità dei pagamenti non è stata sicuramente l’unica possibile causa. Ma è probabile che un qualche ruolo, alla fin fine, lo abbia giocato davvero.
Roberto Seghetti