Il presidente del Consiglio ci ha rassicurati, da adesso in avanti avremo meno scartoffie negli uffici pubblici e tutto sarà più veloce. È normale che Conte esprima ottimismo, è il suo mestiere, deve farlo per contratto. Del resto, se il governo ha approvato dei provvedimenti è giusto che ci creda fino in fondo, anche se pesa quel “salvo intese” in calce al decreto Semplificazione.
Perché è noto che la Pa rappresenti un punto dolente, spesso più ostacolo che aiuto per chi lavora, soprattutto per chi intraprende. Se le norme varate per la pubblica amministrazione saranno davvero in grado di consentire una gestione diversa della cosa pubblica, tanto meglio. Spesso pero’ avviene esattamente il contrario. In alcune interviste dei giorni scorsi, Il diario del lavoro ha esplorato con attenzione questo mondo per capire cosa effettivamente non funzioni, quali siano i difetti di fondo della macchina burocratica, quali i meccanismi dove è necessario mettere le mani. E il risultato non è stato confortante.
Che ci siano difetti è fuori dubbio. Se Sergio Gasparrini, che conosce bene l’amministrazione pubblica dato che per otto anni è stato il presidente dell’Aran, parla di “complessità insormontabili”, è evidente che le cose non marciano come dovrebbero. A suo avviso pesano alcune disfunzioni di fondo. La prima attiene al numero delle persone o istituzioni in grado di intervenire nella definizione dei provvedimenti. Un problema di competenze, molto grave perché nessuna persona, soprattutto nessuna istituzione vuole fare un passo indietro. Comuni, province, regioni, città metropolitane, la lista non finisce mai e molto spesso le competenze non sono precise, per cui si crea un ingorgo inestricabile che sfocia nell’immobilismo. Superare questa situazione è molto difficile, perché, appunto, nessuno è disposto a fare un passo indietro e poi perché spesso sono anche le norme costituzionali a creare confusione. E correggere la Costituzione non è semplice.
Un’altra grave disfunzione è data dal fatto che non è mai stato chiarito fino in fondo a chi competa la gestione della cosa pubblica. Se alla dirigenza, come sembrava che si fosse deciso nel 1993, o invece alla politica. Questa infatti per un periodo, breve, accettò di limitare la sua azione all’indirizzo della macchina pubblica, ma quasi subito ha ripreso a interessarsi direttamente della gestione. Al punto che persino la funzione dell’Aran è stata messa in dubbio da alcuni ministri che non gradivano di essere estromessi dalla conduzione delle trattative per il rinnovo dei contratti. Questa incertezza si riverbera direttamente sulla funzionalità della macchina burocratica che si inceppa ogni volta che forti interessi suscitano l’intervento di ministri o in generale di esponenti politici.
È evidente che un semplice decreto legislativo come quello approvato in questi giorni può risolvere problemi minori, relativi al funzionamento della burocrazia, non può certo risolvere i problemi di fondo, quelli della distribuzione dei poteri nell’ambito della Repubblica. Servirebbe un’azione riformista più ampia, molto difficile da realizzare. Perché riforme dell’amministrazione pubblica in questi anni ce ne sono state, ma troppe e animate tutte da una volontà decisa a cambiare tutto, facendo piazza pulita di quanto fatto dal precedente riformatore, specie se era di altra parte politica. La progressione di queste riforme palingenetiche è impressionante e fa capire perché non abbiano mai colto l’obiettivo. Una riforma assennata non dovrebbe mirare a cancellare la precedente dando vita a qualcosa di totalmente differente. Si dovrebbe mettere sotto osservazione la precedente riforma, per capire fino a dove è stata funzionale e dove è stata carente, intervenendo poi a salvaguardare la parte positiva e a correggere quella sbagliata. Ma nessuno ha mai agito così, non è mai accaduto.
Il decreto Semplificazione potrebbe forse riuscire a superare l’ostacolo del reato di danno erariale. Un vero pericolo per l’efficienza dell’amministrazione perché, nel timore di essere chiamato a rispondere dei danni derivati da una propria decisione, il pubblico funzionario di solito si astiene dal prenderla. Stabilire che c’è danno erariale, da imputare al dirigente, solo in presenza di dolo è certamente un passo in avanti. Bisognerà verificare nel tempo se sia sufficiente o se le abitudini siano ormai così radicate da resistere anche a questa modifica.
Insomma, non ci sembra che le decisioni prese dal governo siano tali da cambiare lo stato della burocrazia. Possono migliorare qualcosa, questo sì, e quindi vanno accolte positivamente, ma deve essere chiaro a tutti che si dovrebbe andare più a fondo, per arrivare ai nodi veri che inceppano la macchina burocratica. Solo un lavoro congiunto delle istituzioni, a tutti i livelli, con le parti sociali, aziende e sindacati, potrebbe ottenere un effettivo risultato. Ma da questo approdo siamo ancora lontani mille miglia.
Massimo Mascini