Nella Newsletter del Diario del 6 novembre, Massimo Mascini mette il dito nella piaga e rileva come le relazioni industriali siano, diciamo, in una sorta di stallo. Il direttore vede tra i “mali” di cui soffrono le relazioni industriali anche la politica salariale che ruota ancora intorno a dinamiche di contenimento dell’inflazione, nonostante questa sia da tempo sotto controllo, anzi la sua totale scomparsa, sottolinea, si sta rivelando quasi un fattore negativo. Fatta questa lunga premessa arrivo al punto (Mascini lo fa con più garbo): relazioni industriali, contrattazione e salario hanno urgente bisogno di una bella svecchiata.
Personalmente non ho dubbi che tutto questo possa avvenire solo da una precisa e manifesta volontà delle associazioni dei datori di lavoro e dei sindacati. Volontà che passa dal superamento di categorie di rappresentanza e rappresentatività, dalla presa di coscienza che ci troviamo in un assetto economico e finanziario basato sulla competizione mondiale e che, come se non bastasse, la pandemia ha cassato ulteriormente tutto l’armamentario produttivo in essere. Il Covid, oltre i guai che ha combinato, ha, contrattualmente parlando, svelato qualche altarino. Come per esempio esaltare alcune figure professionali – tipo infermieri e rider pagati una miseria però considerati essenziali e deprimendone altre, cioè sempre per fare un esempio ,quasi tutta la pubblica amministrazione. Ciò detto e senza la pretesa di avere la risposta giusta, provo ad immaginare qualche (possibile) soluzione.
Prima di tutto bisognerebbe distinguere in modo netto le politiche contrattuali tra i settori esposti al mercato, per quali va privilegiata la contrattazione aziendale e quelli che invece al mercato non sono esposti quindi la quasi totalità del settore pubblico, dove, invece una solida contrattazione nazionale, soprattutto per i ruoli dirigenti, sarebbe sufficiente. Va anche detto che le relazioni industriali, sempre in chiave svecchiamento e rilancio, devono considerarsi un ” dialogo tra privati”, per cui meno il legislatore ci mette mano meglio è.
Poi c’è il problema della malattia endemica del nostro Paese, lo squilibrio e la disuguaglianza tra macro aree socio-economiche che per comodità traduciamo in Nord e Sud. Certo non saranno le relazioni industriali a superare il problema, però se un patto nazionale tra produttori stabilisse che sul territorio e in azienda si possono sperimentare forme alternative di salario e orario, indiscutibilmente le stesse relazioni avrebbero un ruolo non secondario in termini di attrattive per investimenti produttivi e conseguenti ricadute positive in occupazione e distribuzione di redditi. Per finire, credo che la pandemia ci lascerà in eredità lo smart working, la valorizzazione dei servizi alla persona e soprattutto un sostanziale cambio del nostro stile di vita: tutte opportunità contrattuali e occasioni per ridisegnare figure professionali, salari e orari.
Ecco, per dirla tutta, non è “ai posteri l’ardua sentenza”, bisogna muoversi per tempo e il tempo è adesso.
Valerio Gironi