L’ultima esternazione pubblica del Professore Alberto Zangrillo, prorettore dell’università Vita Salute e primario della rianimazione dell’ospedale san Raffaele, in cui si asseriva con perentorietà che il virus Sars Cov 2, responsabile della COVID 19, è ormai privo di forza e incapace di generare i danni prodotti solo un mese prima ha ulteriormente aumentato il livello di incertezza generale.
Il Comitato tecnico-scientifico del Ministero della salute e Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’istituto Spallanzani, a cui dobbiamo la prima sequenziazione del virus arrivato in Italia, hanno subito freddato gli entusiasmi con argomentazioni di segno opposto. La loro posizione infatti è quella che allo stato attuale non esiste alcuna pubblicazione scientifica attestante, dalle 35.000 sequenze di virus finora eseguite a livello mondiale, l’isolamento di una mutazione di Sars Cov 2 tale da determinare un ridotto potere patogeno.
Una tesi sovrapponibile a quella del Prof. Zangrillo viene invece sostenuta dal Prof. Bassetti, primario infettivologo del San Martino di Genova. Continua invece ad essere di parere opposto il Prof. Massimo Galli, infettivologo di un altro importante nosocomio milanese, il Luigi Sacco, che non ha notato alcuna modificazione del livello di gravità della malattia.
In questa contesa accademica, di cui abbiamo riportato solo una parte, si è, infine, inserita la stessa OMS con una presa di posizione firmata da Kate Kelland e Emilio Parodi e comparsa sul notiziario dell’agenzia “World news “in data primo Giugno 2020.
Nel loro intervento gli autori, due epidemiologi della stessa OMS, hanno seccamente smentito le posizioni del Prof. Zangrillo sostenendo testualmente che “le affermazioni – dello stesso – non sono supportate da evidenze scientifiche” e che “non esistono dati che evidenziano che il nuovo coronavirus è mutato significativamente sia per quanto riguarda le sue modalità di trasmissione e sia per quanto riguarda la severità della malattia da questo determinata”.
Una così marcata diversità di opinioni non può non generare confusione e sconcerto, non solo nell’opinione pubblica, ma anche nel maggior parte del personale sanitario, di cui solo una parte ha specifiche competenze su tale patologia in quanto direttamente impegnato sul campo.
Sappiamo da tempo che la falsificabilità di una teoria scientifica è quello che distingue una proposizione scientifica da una semplice credenza (per sua natura non falsificabile) ma in questo caso tra due posizioni così distanti è difficile riconoscere la normale dialettica tra tesi divergenti.
In medicina invece è normale pretendere, nei limiti ovviamente dello stato delle conoscenze al momento disponibili, una certa omogeneità di vedute, specie se si sta discutendo di malattie ad altissimo impatto sociale.
La vicenda del COVID 19 è invece caratterizzata, fin dall’inizio, da un violento cortocircuito mediatico e da una contraddittoria e controproducente strategia comunicativa di cui sono stati protagonisti in prima persona propria gli esperti.
La pandemia è stata inizialmente negata da tutti i principali virologi e poi riconosciuta come potenzialmente devastante: i mezzi di protezione individuali come le mascherine sono stati inizialmente considerati inutili e addirittura vietati in alcune strutture sanitarie e ora vengono (giustamente) imposte in tutti gli spazi in cui non è possibile mantenere il distanziamento necessario a evitare la potenziale trasmissione del virus; i test sierologici e i tamponi sono stati prima riservati esclusivamente ai malati dichiarati, ma nel Veneto, contravvenendo alle indicazioni ministeriali sono stati utilizzati per tracciare (con successo) i soggetti asintomatici, evitando così la diffusione del contagio. Una pratica quest’ultima riconosciuta straordinariamente efficace non solo in Italia ma anche all’estero.
Sui principali topic, dunque possiamo affermare che si è detto tutto e il contrario di tutto; e questo non dalla gente comune o da giornalisti in cerca di vivacizzare i propri talk show, ma da quei soggetti che, nel campo istituzionale variegato della sanità, avevano un ruolo di stakeholder e opinion leader.
Da questi personaggi, che tutti noi abbiamo imparato a conoscere nelle estenuanti maratone televisive, che hanno scandito il tempo del lungo lockdown, ci saremmo aspettati una prudenza e una misuratezza che invece non hanno mostrato.
A prevalere è stato il fascino perverso della notorietà televisiva, il lato oscuro del potere della società della comunicazione che il sociologo francese Pierre Bourdieu ha definito “simbolico” e a cui ha dato un significato altrettanto desiderabile e ricercato di quello economico-finanziario.
Un atteggiamento che è tutto il contrario di quello che avviene, o almeno dovrebbe avvenire nel mondo scientifico. Chiunque sia autore di un lavoro scientifico inviato a una rivista internazionale sa che il proprio paper, per essere pubblicato, deve essere variamente processato: prima deve essere accettato dalla rivista; poi essere sottoposto alla revisione di referee che chiedono delle correzioni al testo a cui l’autore deve adeguarsi o contestarne la fondatezza; alla fine, e solo se la redazione della rivista accetta come valide le correzioni dell’autore, si procede alla stampa del manoscritto.
Un processo così articolato e ponderato viene completamente eluso davanti al mezzo televisivo; in questa occasione tutti, esperti compresi, si sentono liberi di assolutizzare le proprie opinioni e universalizzare le proprie esperienze senza alcuna valutazione preventiva da parte della comunità scientifica. Una divulgazione spesso scomposta e quel che peggio remunerata a tariffa oraria e più o meno consistente a seconda dello status che l’ospite ricopre nella divisione sociale del lavoro scientifico.
Le conseguenze di tale circo mediatico sono spesso la creazione di un intollerabile rumore di fondo che confonde e disorienta i cittadini bombardati da messaggi contraddittori e incoerenti. Quella a cui abbiamo assistito è stata dunque una sorta di dislocazione del discorso scientifico dalle sedi proprie, le riviste scientifiche e i momenti collegiali di elaborazione di linee guida e di position paper da parte di esperti universalmente riconosciti, a quello dei set televisivi.
Un luogo o meglio un non-luogo dove vige sempre più un sistema di regole completamente diverse da quello abituale per le discussioni scientifiche e sempre più orientato all’hinc e nunc perchè condizionato dallo share degli ascolti.
La televisione, infatti, per riuscire a competere con l’informazione veicolata dal web, deve ormai puntare all’effetto immediato; alla notizia saturata di contenuti emozionali più che riflessivi; mezzo e strumento indispensabile per tenere inchiodato il televedente e convincerlo al “restate con noi”. A non cambiare canale al primo stacco pubblicitario.
Dal salotto buono di Bruno Vespa allo studio minimalista di Giovanni Floris, il mezzo televisivo dunque è ormai il luogo della discussione per eccellenza, più centrale dello stesso parlamento, ma sempre più sottratto alla vita reale. Un luogo dove ci si deve schierare da una parte o dall’altra per fare salire il livello emozionale e riuscire così a ripagare il telespettatore del tempo perso a seguire una discussione a cui si può partecipare; e di cui si sente parte solo identificando il proprio “personale” avversario nell’ospite di turno antipatico o di diverso schieramento politico.
Un modo di affrontare il dibattito pubblico che è nemico di una discussione orientata sul merito, poco efficace per le questioni di rilevanza politica, ma assolutamente improprio e controproducente per quelle di tipo scientifico.
Un arretramento della qualità dell’informazione che rinuncia ai contenuti e che parla invece alla pancia della gente senza dare dei veri strumenti conoscitivi di una realtà che si vuole descrivere e che invece si deforma. Uno stile dunque che non fa bene alla vera divulgazione scientifica e da cui gli esperti dovrebbero imparare a sottrarsi.
Roberto Polillo