La Francia del 2018 non è certo il Cile del 1973. E paragonare il funzionario Emmanuel Macron al marxista Salvator Allende sarebbe da pazzi. Eppure, a ben guardare, un tratto comune tra la Parigi messa a soqquadro dai gilet gialli e il palazzo della Moneda assaltato dai militari golpisti può essere intravisto. Ad affiancare due scenari così diversi è la benzina. O meglio il suo prezzo. Il legittimo governo di Santiago fu messo in ginocchio dallo sciopero dei camionisti che paralizzò il Paese. Tra le cause principali del fatidico blocco c’era il caro carburante. Lo stesso motivo che spinge in piazza gli automobilisti d’Oltralpe.
Il colpo di Stato che portò alla dittatura di Augusto Pinochet ebbe il sostegno della Cia. Gli Stati Uniti non potevano permettere che il morbo del socialismo si diffondesse in Sudamerica, nella loro ottica già l’esistenza di Cuba era intollerabile. E allora le radicali riforme, varate a difesa della collettività contro lo strapotere degli oligopoli, furono schiacciate con la violenza dell’esercito infedele. Le tasse sul petrolio furono ridotte e mentre gli oppositori del nuovo regime scomparivano nelle carceri, il trasporto delle merci su strada riprendeva libero e tranquillo.
Certo, l’attuale inquilino dell’Eliseo non rischia di fare la tragica fine di Allende (non è mai stato definitivamente chiarito se davvero si suicidò o fu ucciso). Il contesto geopolitico è del tutto diverso, le forze armate francesi non sono guidate da generali avventuristi, un rovesciamento violento delle istituzioni è semplicemente impensabile. Siamo nella civilissima Europa del Duemila, vivaddio! E poi i servizi segreti americani, impegnati nel Russiagate, non vanno più in giro, almeno speriamo, ad appoggiare e finanziare attività sovversive. Non è aria per minacce come quelle di Henry Kissinger quando parlò di “spaghetti in salsa cilena” oscurando con una lunga ombra il futuro della nostra democrazia squassata dall’inflazione e dal terrorismo, un clima che spinse Enrico Berlinguer sulla strada della solidarietà nazionale.
Altre storie, altri tempi. Ma quando i manifestanti chiedono le dimissioni di Macron, in vertiginoso calo di popolarità, a Washington non possono che sorridere. E lo stesso fanno a Mosca. L’offuscamento, o addirittura il crollo, del presidente francese, che ha fatto del rafforzamento dell’Unione la sua principale bandiera, sarebbe una manna per chi punta al dissolvimento della Ue, parteggiando platealmente per i movimenti sovranisti. Marine Le Pen ha respinto le accuse di soffiare sul fuoco delle proteste (peraltro cavalcate anche dall’estrema sinistra) ma sia lei sia Steve Bannon, l’ex consigliere di Trump da mesi trasferitosi nel Vecchio Continente proprio per aiutare i nemici della Comunità, non possono che essere soddisfatti.
Non sappiamo come andrà a finire, ma di sicuro la questione del prezzo della benzina o quella della carbon tax tornano prepotentemente d’attualità. E’ la politica ambientale ed energetica a fare da spartiacque tra modelli di sviluppo e di vita. Quale futuro si vuole? Avevano ragione i camionisti cileni e hanno ragione i gilet gialli a esigere prezzi bassi del carburante in nome di un’ostentata libertà di guida o di movimento? O ha ragione chi pensa che tassare le multinazionali e cercare di modificare i modi di produzione significa dare una speranza al clima e alla società?
La sinistra, almeno quella nostrana, non ha una risposta a queste domande. Pierluigi Bersani, in una recente intervista, chiede se è accettabile lasciare a piedi un povero cameriere emiliano che vive in campagna e non può andare a lavoro perché non ha un’auto ecologica. E il contrasto tra lavoratori e abitanti in caso di fabbriche nocive, come fu l’Acna di Cengio ed è ancora l’Ilva di Taranto, spacca gli stessi sindacati. Difendere l’occupazione o l’ambiente? E se anche in Italia, che ha pagato pesanti prezzi per le pretese degli autotrasportatori, prendessero piede i gilet gialli? Pardon, dimenticavamo, sono già al governo.
Marco Cianca