Giulio Salierno, giovane missino, fu arrestato nel 1953 per un omicidio compiuto durante una rapina. Dopo 16 anni di prigione fu graziato da Giuseppe Saragat, presidente della Repubblica. In carcere studiò, divenne un altro, e una volta libero si dedicò alla sociologia. Scrisse vari testi sul sottoproletariato e sulla repressione nei penitenziari ma il suo libro più famoso resta “Autobiografia di un picchiatore”. Nel giugno del 1973 rilasciò una lunga intervista, pubblicata dall’Europeo, a Oriana Fallaci. Vale la pena di rileggerla, in questo periodo di spregiudicato revisionismo politico. Partendo dall’arrivo nella sede missina di Colle Oppio, a Roma.
“La sezione era situata in una specie di scantinato cui si accedeva attraverso un corridoio buio come una cripta. In fondo a questa specie di cripta stava un sacrario ai caduti della Repubblica sociale italiana, con la croce illuminata e l’aquila sopra la croce. Da qui si passava a un salone con un immenso ritratto di Mussolini nell’uniforme della milizia, e sotto il ritratto di Mussolini sedevano due dirigenti che ti ricevevano scattando in piedi e alzando il braccio nel saluto fascista. Uno si presentava come un ex maresciallo del battaglione San Marco, l’altro come un ex capitano della Folgore. L’ex maresciallo ci spiegò che entrare nella sezione giovanile comportava automaticamente l’appartenenza al partito, ci consegnò un pacco di manifesti da attaccare e poi ci mise nelle mani degli attivisti perché ci iniziassero subito alla tecnica della provocazione.
Gli attivisti appartenevano all’ala dei duri che si definivano i picchiatori. I picchiatori venivano quasi sempre dalla Repubblica sociale: gente sui trent’anni, ex paracadutisti della Folgore, della Nembo, dei battaglioni Mussolini. Stavano in sezione ventiquattr’ore su ventiquattro, dandosi il cambio. Non avevano un mestiere, un lavoro e non ho mai capito chi li campasse. Eran tanti. In quella piccola sede del Msi ne contavi almeno settanta, e la loro presenza era così costante che al minimo incidente nella zona potevi chiamarli in aiuto. Armati di catene e bastoni, saltavano sul camioncino, piombavano sui tuoi avversari, ne facevano polpette. Grazie ad essi, il mio battesimo della violenza avvenne nel giro di poche settimane.
La “tecnica della provocazione” era anche detta “metodologia del comportamento” o “strategia dello scontro frontale”. Per impararla non dovevi chiedere troppe spiegazioni, bastava seguire i picchiatori, imitarli. I duri ci spiegano che esistono due sistemi per picchiare. Uno è picchiare a casaccio, l’altro è picchiare in modo che la vittima non vada subito per terra. Cioè in modo metodico, calmo, affinché il disgraziato si illuda di restare in piedi e continui a battersi e così riceva più colpi. Questo sistema si chiama “tecnica del pestaggio” e, insistevano i duri, è il migliore, in quanto causa lesioni interne che possono portare alla morte. Capito? Invece di mettere il disgraziato k.o. al primo colpo o al secondo, gli sferri un pugno a una costola. Poi a un’altra costola. Poi allo stomaco. Poi al naso. Poi lo sorreggi mentre sta per cadere e gli tiri un altro pugno alla costola, graduando la forza, ritardando il colpo definitivo, e di questo passo puoi appioppargli una trentina di colpi e mandarlo k.o. in piedi.
Ci definivamo i figli del Sole, e, poiché eravamo i figli del Sole, ogni nostro capriccio era lecito. Io ero grosso e robusto, accecato dalla voglia di sentirmi un uomo, il partito era per me uno strumento di virilità. In ogni sede del Msi l’incultura predominava, il solo concetto cui ci rifacessimo era quello dei figli del Sole. I dirigenti non tentavano nemmeno di indottrinarci scientificamente attraverso libri. Non ci dicevano nemmeno di leggere i discorsi di Mussolini. Se uno li leggeva, insieme agli scritti di Nietzsche e di Sorel, era per una sua curiosità personale. L’unica volta che vidi un libro, nella sezione di Colle Oppio, fu quando il piazzista venne a venderci la storia della Repubblica sociale scritta da un ex repubblichino.
A 18 anni ero stato scelto per ammazzare Walter Audisio. Naturalmente ero pieno di armi. Oltre a cinque pistole, un fucile, numerose bombe a mano, avevo un Thompson calibro 45 che sparava 40 colpi. Me l’aveva dato un altro attivista. Già allora tutti gli attivisti missini avevano armi. Con le bombe… si faceva ai balocchi. Andavamo in campagna e ce le tiravamo addosso per scansarsi un attimo prima che ci colpissero. Era un gioco insegnato dai reduci della Repubblica sociale che ai tempi si divertivano a farsele scoppiare sotto l’elmetto. Imparavamo a usare le armi in campagna, soprattutto durante la stagione di caccia. Altri si addestravano nei campeggi organizzati dal partito. Oltre allo spirito guerresco, nei campeggi si assorbiva l’attitudine a usare il mitra, il fucile, la rivoltella. Non ci vedevamo nulla di male. Perché avremmo dovuto vederci qualcosa di male? Se consideri la violenza come tecnica politica, come ideologia politica, addirittura come filosofia, sparare ha lo stesso valore che fare a pugni. Insomma, una bomba non è più una bomba, un attentato non è più un attentato, una strage non è più una strage”.
Non c’è nulla da aggiungere. Questo è il contributo dato dal Movimento sociale alla nascita della democrazia. Questo andrebbe ricordato a Isabella Rauti, a Ignazio La Russa, a Giorgia Meloni.
Marco Cianca