“Ora dimmi francamente una cosa, mi appello a te, e tu rispondimi. Immagina di essere tu a costruire l’edificio del destino umano, con lo scopo ultimo di far felici gli uomini, di dare loro, alla fine, pace e tranquillità; ma immagina anche che per arrivare a questo sia necessario e inevitabile far soffrire un solo piccolo essere, per esempio quella bambina che si batteva il petto col minuscolo pugno, e sulle sue lacrime invendicate fondare appunto questo edificio: accetteresti di essere l’architetto, a queste condizioni? Dimmelo e non mentire!”, chiese Ivàn con tono penetrante. “No, non accetterei”, rispose piano Alesa.
Il dialogo tra due dei quattro fratelli Karamazov, il più immaginifico e il più fiducioso, avviene in una “lurida osteria” ma raggiunge vette vertiginose. Si parla, prima che lo stesso Ivàn racconti, capolavoro nel capolavoro, lo sconvolgente incontro tra il riapparso Gesù e l’Inquisitore, dell’innocenza e delle sofferenze dei bimbi, sempre vittime di adulti sempre colpevoli. “Una belva non può mai essere crudele come un uomo, così raffinatamente, così artisticamente crudele”. L’essere umano ha creato Dio, suo alibi e speranza, e ha creato il Diavolo, a propria immagine e somiglianza. L’inferno è qui, ora.
Vietare una lezione su Fiodor Dostoevskij, come è accaduto a Paolo Nori, è dannoso ancor prima che stupido. Perché proprio guardare nell’abisso esistenziale scavato dal possente narratore serve a capire come siamo arrivati a tanta angoscia. E con lui bisognerebbe leggere e rileggere Lev Tolstoj, gemello opposto, tanto sognatore e utopista uno quanto l’altro era nichilista e disperato. Uguali nello sgomento di fronte alle nefandezze dei propri simili. I loro fantasmi dovrebbero scacciare i demoni di Ivan il terribile e di Stalin, e apparire a Putin per gridargli con irresistibile comando: “Fermati! Fermati! Fermati!”. E pietrificarlo nella sua scelleratezza. Ah, se la letteratura potesse essere usata come bacchetta magica!
La grande madre Russia, fonte inesauribile di conoscenza. Norberto Bobbio si meravigliava che Pietro Gobetti in appena 25 anni di vita avesse fatto una miriade di cose. Tra queste, vanno annoverati proprio lo studio del russo e l’impegno di traduttore. Con la moglie Ada volse in italiano anche l’astratto pessimismo di Leonid Andreev e il cupo realismo di Aleksandr Kuprin.
Alberto Cavallari, colto, sensibile, passionale, dopo la tormentata e indimenticabile direzione del Corriere (riuscì a guarire il più grande giornale italiano dalle piaghe della P2) volle raccontare “La fuga di Tolstoj”. “Meglio che scrivere la vita di Craxi…”, celiava rispondendo a chi gli domandava perché si fosse dedicato ad un tale argomento. In verità questa “microstoria”, che dura pochi giorni ed è “metafora di tante cose”, lo affascinava da sempre. E negli anni passati in Urss come inviato speciale aveva trovato il tempo per vedere i luoghi e rifare il percorso poi descritti nel geniale libro.
“Questa cronaca – spiegava in una brevissima introduzione – ricostruisce la fuga da casa di Tolstoj, all’età di 82 anni, dalla notte del 27-28 ottobre 1910 alla sera del 31, e si arresta alla stazione di Astàpovo, dove la fuga cessò, non racconta quindi i sei giorni che lo scrittore trascorse alla stazione, morendovi alla mattina del 7 novembre. Ciò che interessava, infatti, era solo il tema della fuga, compreso l’intreccio dei significati possibili: la fuga dalla morte, la fuga/rivolta, la fuga/libertà. Interessava sapere come Tolstoj fuggisse, non come morisse”.
Ed ecco che la conclusione del libro, con le parole dell’autore di Guerra e Pace, diventa un proclama di inusitata attualità. “Una notte, improvvisamente, si sollevò sul letto. Scappare – disse – bisogna scappare”.
Marco Cianca