Gianni Arrigo – Professore di Diritto del Lavoro all’Università di Siena
1 – La riforma del Titolo V – della Parte seconda – della Costituzione ha suscitato rilevanti questioni interpretative sul rapporto tra legislazione nazionale e regionale. Il nuovo art. 117 della Costituzione attribuisce, infatti, la materia della “tutela e sicurezza del lavoro” alla legislazione concorrente delle Regioni, pur nel rispetto dei principi fondamentali della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed internazionale. Il contrasto interpretativo è generato in particolare dalla locuzione “tutela e sicurezza del lavoro” (che sembra più il titolo di una rivista specializzata che il testo di una norma costituzionale) e, più in generale, dall’impianto complessivo della riforma. La poca chiarezza del testo ha dato luogo pertanto a orientamenti estremi, quando non surreali.
Secondo alcuni, la riforma costituzionale condurrebbe ad una “regionalizzazione” della tutela del lavoro in senso generale, e quindi del diritto del lavoro, non più concepito come diritto di prevalente fonte statale. C’è di più: per giustificare la devoluzione alle Regioni di intere materie rientranti nella legislazione concorrente essi fanno leva sulla “sussidiarietà”, forzandone strumentalmente il significato e la funzione.
Altri, partendo da analoghe argomentazioni, e dilatando il senso del testo della Costituzione, individuano una potestà legislativa delle Regioni anche all’interno della stessa legislazione esclusiva dello Stato, a cui il nuovo testo della Costituzione affida “l’ordinamento civile e penale (art. 117, lett. L), nonché “la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio (art. 117, Cost., lett. M). Secondo questa interpretazione, anzi, i ‘principi fondamentali’ (la cui determinazione resta affidata alla legislazione statale) potrebbero ricevere un regime differenziato nelle varie Regioni: la definizione “regionale” degli istituti posti a tutela del lavoro, intesi in senso ampio, darebbe così luogo ad una riscrittura “a macchie di leopardo” del diritto del lavoro.
Questo ragionamento, si dice, potrebbe essere applicato alla tutela contro i licenziamenti individuali: poiché non è chiaro cosa debba essere regolato al livello della legislazione statale e con quale grado di definizione e intensità, si potrebbe allora ritenere “essenziale” – e quindi rimesso alla legislazione esclusiva dello Stato – solo il principio della giustificazione del licenziamento, restando invece affidate alle Regioni le tecniche di reintegrazione o di risarcimento. In tal modo si legittimerebbe una riforma “regionale” dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
2.- L’interpretazione qui sopra riferita non è condivisibile sul piano giuridico, per i motivi seguenti
In primo luogo la riforma costituzionale prevede una competenza di legislazione esclusiva dello Stato non solo per la “giurisdizione e le norme processuali”, ma anche per l’ “ordinamento civile e penale” (art. 117, lett. L). Questa norma consolida un principio di non ingerenza delle Regioni nella tutela giudiziaria, e nella disciplina anche sostanziale dei rapporti tra privati, che la Corte costituzionale ha costantemente tenuto fermo nella propria giurisprudenza. Inoltre, il divieto di ingerenza delle Regioni nella disciplina della tutela giudiziaria e dei rapporti tra privati sembra essere stato recepito, dalla riforma costituzionale del titolo V, della Parte seconda, nella sua versione più antica e “radicale”, ritenuta persino eccessiva da molti, vale a dire nella versione per cui la “giurisdizione”e l'”ordinamento civile” sarebbero da concepire come “materie” a sé distinte, differenti e quindi estranee ad altre materie rimesse alla competenza regionale.
In base a quanto detto non appare condivisibile l’ipotesi secondo cui le Regioni sarebbero abilitate dalla riforma costituzionale ad intervenire nel rapporto tra lavoratore e datore di lavoro, in quanto, appunto, rapporto tra privati, e perciò nemmeno sull’esercizio e le manifestazioni dell’autonomia collettiva, anch’essa sicuramente ricompresa nell’ambito privatistico dell’autonomia contrattuale. Di conseguenza non è plausibile neppure l’ipotesi sostenuta, fra gli altri, dalla Regione Lazio (Cfr. il documento della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome: “Prime osservazioni sul d.d.l. delega in materia di occupazione e mercato del lavoro’, del 21 gennaio 2002, in preparazione dell’audizione delle Regioni al Senato) secondo cui le Regioni possono legiferare per modificare, nei propri territori, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori o altri procedimenti di tutela giurisdizionale (il riferimento è anche all’arbitrato), stante oltretutto la modesta ampiezza dei territori regionali in rapporto al raggio di azione normale delle imprese e delle attività economiche.
In secondo luogo la riforma costituzionale non solo ha confermato per le Regioni il divieto, già previsto nel vecchio testo della Costituzione, di provvedimenti che possano ostacolare in qualsiasi modo la ‘libera circolazione delle persone o delle cose o che possano “limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale”, ma ha rafforzato quelle proibizioni con la previsione di un apposito “potere sostitutivo” della legislazione statale. Quanto detto testimonia la necessità di un’unica disciplina nazionale dei rapporti tra privati, individuale e collettiva, sul puro ambito del diritto del lavoro.
Queste considerazioni risultano confermate dal Cnel: nelle “Osservazioni e proposte” approvate dall’Assemblea del 24 gennaio 2002, il Consiglio ha dichiarato che la disciplina del contratto e del rapporto di lavoro e del diritto sindacale – connessa all’ ordinamento civile – rientra nella competenza esclusiva dello Stato. Per quanto riguarda “la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio (art. 117, Cost., lett. M), il Cnel ritiene che “essa deve assicurare l’effettività del diritto fermo restando un margine di valutazione politica circa l’entità dei bisogni che richiedono una prestazione uniforme sull’intero territorio nazionale”. In proposito il Cnel auspica la costituzione di Osservatori statali, con la partecipazione di rappresentanze sociali, per monitorare le prestazioni erogate a livello regionale. Infine, il Cnel ritiene “opportuna una rivisitazione degli strumenti della programmazione negoziata in termini di sinergia e codecisione; l’intesa istituzionale di programma e i relativi accordi di programma quadro dovrebbero costituire lo snodo nazionale, mentre il nucleo dei patti territoriali dovrebbe essere trasformato in una sorta di intesa subregionale tra Regioni, enti locali e forze sociali” .
D’altra parte, un inquadramento così fatto riflette la realtà di esperienze autenticamente federali, come quella della Germania, Paese in cui non esiste alcun dubbio circa la esclusiva attribuzione allo Stato federale delle competenze legislative in materia di licenziamento, come dimostra la recente modifica (in senso migliorativo, è il caso di ricordare). Ma non solo in materia di licenziamento. Anche la più recente legislazione tedesca in materia di contratto a tempo determinato (anch’essa migliorativa della precedente), nonché la nuovissima riforma della legge sulla codeterminazione aziendale hanno carattere e dimensione federale.