A metà degli anni ’70, l’accesso al mondo del lavoro dei medici era così disciplinato: chi voleva iniziare la carriera di medico di base doveva semplicemente prendere il cosiddetto “numero” presso il proprio ordine dei medici e, una volta ottenuto, poteva iniziare ad acquisire assistiti (i mutuati come allora si diceva) per conto delle diverse mutue esistenti. Non c’era alcuna barriera all’accesso e ben presto la situazione divenne ingovernabile; perché come ebbe a dire il presidente multitasking di allora della FNOM, On Elio Parodi, il medico di base era diventato più che medico di famiglia, medico di condominio. In ogni palazzo ce ne era uno, con una media di pazienti compresa tra i 10 e i 50 ( genitori, parenti stretti e, nei casi fortunati, portiere dello stabile con familiari a carico)
L’accesso all’ospedale era invece stato subordinato al possesso di un attestato di tirocinio di sei mesi presso una divisione ospedaliera; un tirocinio remunerato a cui si accedeva previa selezione per titoli.
In base a questa ultima norma mi ritrovai così, con tanti altri, a frequentare la divisione di Medicina dell’ospedale Santo Spirito di Roma, allora amministrato dal Pio Istituto.
Il primo obiettivo era stato raggiunto, ma il vero problema era riuscire a vincere, appena terminato il tirocinio, un avviso pubblico per un posto a tempo determinato di assistente, a cui di solito faceva seguito un concorso a tempo indeterminato.
Non appena il Pio Istituto sbloccò le procedure concorsuali, partecipammo tutti ai diversi avvisi ma in tre amici non riuscimmo ad entrare. Provammo allora all’Ospedale San Giovanni, ma i nostri destini si separarono, perché i miei due amici (fidanzati tra loro) vinsero la selezione e il sottoscritto restò invece fuori. Il problema era che i nostri titoli erano assolutamente eguali e i miei voti accademici superiori ai loro. Mi recai quindi, in cerca di giustizia, dal direttore sanitario dell’Ospedale che mi ricevette e mi disse senza mezze parole: fai quello che vuoi ma ricordati che la causa la perdi di sicuro. E io mi rassegnai
Avevo però capito che in ospedale si entrava solo conoscendo un membro della commissione di concorso, tra cui erano fissi i sindacalisti. Sempre più preoccupato del mio futuro, andai a parlare con il fiduciario dell’ANAO, la sigla più rappresentativa, e questi mi spiegò che lui difendeva per principio chi aveva dato qualcosa all’ospedale, anche se diverso dal suo, e che nell’ultimo avviso del San Giovanni aveva fatto vincere il posto a un ex tirocinante del Santo Spirito ( fidanzata compresa) che aveva conosciuto perché giocavano insieme a calcetto! Ecco risolto il mistero: era il campo di calcio il setting formativo che apriva le porte al mondo del lavoro e chi tale sport non praticava, perdeva uno degli assist per entrarvi.
A distanza di 40 anni la situazione non sembra cambiata, come autorevolmente testimoniato in questi giorni dal Ministro Poletti. I suoi consigli sul dar peso più al campo di calcio che al curriculum hanno suscitato sdegno o riprovazione ma per me sono stati un deja vu e li ho vissuti, senza emozione, come la dimostrazione della immobilità del paese. Il ministro usa un linguaggio che è tipico della sua terra di origine. Le sue frasi certo non hanno la delicatezza degli aforismi delle odi di Orazio né la profondità dei pensieri di Pascal. Ma hanno il merito di illustrare brutalmente lo stato delle cose del paese Italia, e suscitano lo sdegno generalizzato perché la sua è una verità che fa male sentire, ma che è comodo utilizzare quando si tratta della propria cerchia ristretta.
L’Italia è il paese del familismo amorale in cui, come dice Poletti senza mostrare il minimo pudore, è meglio levarsi dai piedi se non si accettano le sacrosante e immutabili regole dell’appartenenza a qualche aggregazione umana: la chiesa, il campo di calcio, il partito, tutto va bene purchè si faccia parte di qualcosa. Sono gli spiriti liberi e cani sciolti che non hanno diritto di cittadinanza nel paese e questi signori, visto che vogliono restare fuori dal gioco, abbiano almeno la buona creanza di accomodarsi fuori.
Roberto Polillo