Il salario non sembra essere tra le prime opzioni del sindacato. Ne fa fede la piattaforma rivendicativa dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto nazionale della categoria: la richiesta di aumento salariale arriva solo al nono posto tra le undici avanzate dai rappresentanti dei lavoratori. Eppure, la prima sessione vera di trattative per il contratto dei metalmeccanici, dopo il primo incontro che è servito da apripista, verterà proprio sul tema del salario. Una novità assoluta, perché l’aumento salariale è sempre l’ultimo argomento da trattare, perché è il più complesso, il più difficile da affrontare e le due parti preferiscono arrivarci quando già altri capitoli sono stati chiusi positivamente. Ma stavolta l’ordine è invertito su una precisa richiesta della parte datoriale che ha preferito partire dal tema più caldo.
I termini della querelle sono precisi. I sindacati hanno chiesto un aumento di 280 euro mensili per il livello C3, quello che una volta era il quinto livello, il più diffuso. Federmeccanica, l’associazione delle aziende del settore, ha subito fatto notare che si tratta di un aumento troppo alto, che nei fatti viola gli impegni che le confederazioni avevano assunto con il Patto della fabbrica nel 2018. Questa intesa affermava infatti che gli accordi per i rinnovi dei contratti nazionali non dovevano decidere aumenti superiori alle previsioni di crescita dell’Ipca depurato degli aumenti dei prodotti energetici importati. I tre sindacati della categoria hanno respinto la critica datoriale ricordando come già nel precedente accordo contrattuale fosse stato autorizzato un aumento superiore all’inflazione considerando che nel frattempo è stato rinnovato l’inquadramento professionale, che aveva richiesto una risistemazione di tutti i minimi salariali previsto dal contratto.
Tutta la questione è poi ancora più complicata perché l’anno passato e quest’anno i salari dei metalmeccanici hanno avuto un aumento rilevante come conseguenza della crescita che c’è stata dell’inflazione. Tutto discende da una scelta che il settore fece già nel 2016, quando si decise di stabilire gli aumenti contrattuali non ex ante, come si era sempre fatto e come tutte le altre categorie hanno continuato a fare, ma invece ex post. Non cioè stabilendo all’inizio del triennio quale avrebbe potuto essere la crescita dell’inflazione, ma decidendo gli incrementi salariali a posteriori, sulla base dell’inflazione che effettivamente si è verificata. Nel 2021, all’ultimo rinnovo contrattuale, le parti precisarono questo accordo stabilendo degli aumenti molto precisi, quattro tranches rispettivamente di 25 euro le prime due, di 27 euro la terza e di 35 la quarta, ma introducendo quella che hanno chiamato “clausola di salvaguardia”, secondo la quale quegli aumenti sarebbero divenuti più cospicui se l’Istat nelle sue rilevazioni annuali avesse rilevato una crescita anomala dell’Ipca. Scelta felice che ha consentito ai salari dei metalmeccanici, dopo l’esplosione dell’inflazione, di crescere più di quanto previsto dal contratto. Nel 2023 la crescita è stata infatti di 123 invece dei 27 previsti, quest’anno l’aumento, invece di 35, è stato di 137 euro, sempre per il livello C3.
È proprio a causa di questi aumenti, certamente superiori a quanto fosse lecito attendere, che la materia è diventata difficile da gestire. Le aziende hanno sofferto questi aumenti rilevanti in un momento in cui le difficoltà congiunturali non consentivano aumenti dei prezzi dei prodotti e guardano al futuro con qualche apprensione. Non è un caso se Stefano Franchi, il direttore generale di Federmeccanica insiste ad affermare che non accetterà mai un accordo che possa danneggiare anche una sola impresa associata, raccomandando per questo di restare sempre con i piedi ben piantati in terra, senza dimenticare la realtà.
Le aziende hanno le loro ragioni, ma anche i sindacati hanno motivi per insistere sulle loro rivendicazioni. Perché è vero che i salari dei metalmeccanici, grazie a quelle scelte, sono cresciute abbastanza in questi ultimi anni, ma in generale la caduta dei salari è un dato di fatto. Fabio Panetta, il governatore della Banca d’Italia, nella relazione che ha presentato alla sua assemblea ha ricordato che i redditi orari dei lavoratori dipendenti sono inferiori di un quarto a quelli di Francia e Germania e che il reddito reale a disposizione delle famiglie italiane è fermo al 2000, mentre in Francia e Germania da allora è aumentato di oltre un quarto. Un calo netto, dovuto, a detta di tutti, dalla mancata crescita della produttività. È questo il vero motivo per cui i salari italiani hanno perso peso.
Ha contribuito certamente la limitata propensione dell’imprenditoria italiana agli investimenti, a sua volta determinata dall’abitudine di competere riducendo il costo del lavoro. E su questo possono intervenire solo i costruttori di una vera politica industriale, ma le parti sociali a loro volta possono cercare di intervenire con gli strumenti che hanno, in primo luogo con il contratto. E forse allora non hanno avuto torto i sindacati dei metalmeccanici che, nel costruire le loro richieste contrattuali, hanno privilegiato altri capitoli rispetto al salario. Hanno puntato sulla riduzione dell’orario di lavoro, sulla partecipazione, sulla formazione, sulla conciliazione vita-lavoro. È intervenendo in questi campi che è possibile migliorare il rendimento del lavoro, aumentando così la produttività. Sono questi i capitoli nuovi delle relazioni industriali da valorizzare.
Massimo Mascini