Ho letto con grande interesse l’intervista di Enzo Mattina, (Diario del Lavoro 9-12) sulla famosa vertenza Fiat del 1980. Mattina è un testimone diretto della vicenda e un protagonista delle migliori stagioni dell’esperienza unitaria della FLM. Io invece, più modestamente ero un giovane colletto bianco, appena eletto nel Consiglio di Fabbrica di un’azienda metalmeccanica di Pomezia con circa 1.000 addetti. Tifavo FLM quando ero ancora studente, figuriamoci esserne parte.
La vertenza Fiat, in quei giorni, segnava il discrimine tra l’avanzata dei lavoratori, alla partecipazione della vita lavorativa, al coinvolgimento del sindacato nel definire l’organizzazione del lavoro (ascoltavo affascinato gli operai del Consiglio, con il diploma di terza media, tener testa al Direttore sull’organizzazione del lavoro, proponevano le “isole produttive”, cioè gruppi di lavoratori capaci di svolgere più mansioni sullo stesso prodotto in costruzione), il discrimine appunto, tra andare avanti o tornare indietro “zitto e lavora”.
La realtà, come abbiamo visto era più complessa, ma questo era quello che si percepiva in quel momento, in quella realtà, così lontana da Torino. Torino e Fiat che comunque rappresentavano, nell’immaginario collettivo e non solo nell’immaginario, il cuore pulsante del sindacato. La marcia dei 40 mila chiuse la vicenda, in modo drammatico per il sindacato. Tentarono di spiegare le ragioni Gino Mazzone Fiom Lazio e Adalberto Minucci Direzione PCI in una riunione dei quadri comunisti della Fiom di Roma (a quel tempo c’erano ancora le componenti di partito nella Cgil). Uscimmo da quella riunione sconfortati e qualcuno con le lacrime agli occhi. Il danno non fu solo per i lavoratori che furono sospesi, oltre la metà dei quali non rientrò più, il danno si riverberò in TUTTI i luoghi di lavoro. Ricordo il cambio di atteggiamento del nostro capo del personale: diventò in maniera repentina, aggressivo, arrogante.
Ci tirammo su le maniche per ricostruire il nostro “potere” contrattuale. Credo che la sconfitta dopo quei 35 giorni di sciopero, non fu meritoné della marcia dei 40mila, né di Romiti. E non fu certo Berlinguer a delegittimare il Sindacato, con la sua presenza davanti ai cancelli di Mirafiori. Voglio ricordare che il comizio di Berlinguer avviene a metà dei 35 giorni di sciopero e presidi davanti ai cancelli.
Che i lavoratori si sentissero appoggiati dal Pci è certo, ma Berlinguer non disse una sola parola di incitamento, disse che il Pci non li avrebbe lasciati soli. E cosa doveva dire il capo di un partito che nasce per l’emancipazione di operai e contadini? Soprattutto quando era il sindacato a gestire la mobilitazione. O No? Perché se non era la FLM a gestire la mobilitazione, allora inutile cercare responsabilità altrove. Non fu opera della sconfitta, neanche la pubblicazione da parte di Fiat, dei nominativi degli esuberi, che certamente indebolì il fronte unitario. Penso che se anche non ci fossero state queste variabili, e il Sindacato fosse riuscito ad imporre la cassa integrazione a rotazione, comunque di lì a poco tempo la Fiat, avrebbe presentato di nuovo il conto degli esuberi.
Credo, se non mi è sfuggito, che un’analisi approfondita da parte sindacale, di quella vertenza, non sia mai stata fatta. Eppure una lettura aggiornata di quella vertenza, farebbe bene a tutti, perché di piccole vertenze Fiat ne sono capitate tante e tante ne capiteranno ancora, spesso con esiti drammatici (vedi Almaviva). Certo ogni vertenza sindacale fa storia a sé, ma inquadrare nella giusta prospettiva, con un’analisi seria, le crisi aziendali che si determinano, e quindi trovare le adeguate soluzioni specifiche, fuori dagli slogans che spesso servono per non sporcarsi le mani, può fare la differenza sia per le condizioni dei lavoratori impattati, sia per il Sindacato che li rappresenta.
Fabrizio Tola