Aris Accornero
Le reazioni al processo di globalizzazione si appuntano contro tre conseguenze altamente simboliche: la crescita delle disuguaglianze di reddito fra i paesi e dentro i paesi (una prospettiva invero aberrante); gli ingenti e fulminei spostamenti di capitali a caccia di guadagni facili, ovvero il ‘denaro impazzito’; e il ‘dumping sociale’ realizzato da imprese multinazionali che (come la Nike) sfruttano le differenze di trattamento fra i vari paesi. I sindacati sono sensibili a queste conseguenze, pur essendo divisi sulle strategie: quelli americani sono per un nuovo protezionismo mentre quelli italiani sono per un nuovo internazionalismo. Intanto si avvicina una scadenza sempre più significativa come quella del G8 che si riunirà a Genova.
In questo quadro ha stupito la sensibilità mostrata dai Giovani Imprenditori, che nel loro recente convegno hanno voluto dare una immagine di apertura ai problemi e ai contestatori stessi. La loro insistenza su un approccio non meramente economico al mercato e a un ‘governo’ della globalizzazione suonava dissonante rispetto all’impostazione della Confindustria, che in effetti ha preso qualche distanza dalle posizioni da essi adottate.
Ma la posizione dei Giovani Imprenditori, appassionatamente esposta dal presidente Edoardo Garrone, non dovrebbe stupire. Giusto sei mesi fa, anche il più importante settimanale economico americano presentava una posizione piuttosto aperta al problema della globalizzazione. Sotto il titolo ‘Capitalismo globale’, Business Week dava conto di delusioni e malesseri ormai così diffusi da richiedere un cambio di rotta. Dopo Seattle, infatti, il problema si pone a chiunque creda nel mercato, e quindi agli imprenditori prima di ogni altro.
Qual è il problema? Il problema è che la prima fase della globalizzazione ha creato tali scontenti e tali incrinature da determinare uno stallo nel processo medesimo. Inutile ripetere che la globalizzazione è irreversibile: anche il progresso era considerato irreversibile, ma dopo i fasti sono venuti i guasti ed è giusto interrogarsi sui fini desiderabili e su come gestirlo di conseguenza.
Il fatto è che – come segnala anche l’Economist – gli effetti della globalizzazione hanno determinato spinte contrarie all’apertura dei mercati. Ciò si deve innanzitutto ai traumi provocati in vari paesi, dall’Est europeo al Sud-Est asiatico, dai drastici e rigidi interventi di liberalizzazione decisi dal Fondo monetario e dalla Banca mondiale, e non sempre temperati dall’Organizzazione per il commercio. Le ricette e i tempi dell’Occidente hanno creato guasti economici e sociali ma anche reazioni di rigetto culturale. Ciò alimenta il malessere che è rivolto contro la globalizzazione ma che paradossalmente reagisce all’impasse di questo processo. Gli stessi Usa di Bush junior mostrano tentazioni di chiusura commerciale, nel doppio contenzioso che li contrappone da un lato all’Europa e dall’altro all’Asia (dove potrebbe addirittura nascere un Fondo monetario distinto da quello di Washington).
Quindi, nelle richieste e nelle accuse dei contestatori bisogna vedere anche quel che non essi non chiedono, cioè un rilancio governato del processo di globalizzazione, una fase di nuova graduale apertura dei mercati. E questo solleva il problema delle istituzioni: di fronte alle spinte della tecnologia e della comunicazione, di fronte al crescere vertiginoso della popolazione mondiale, gli organi della globalizzazione non sono all’altezza né dei tempi né dei modi. Essi restano lontani dai soggetti coinvolti, con livelli di trasparenza e modalità decisionali totalmente inadeguati. Questo dovrebbe stare sul tavolo del G8.