Lo sciopero generale effettuato nei giorni scorsi da Cgil e Uil ha ridato una spinta al ritorno sulla scena politica del movimento sindacale. Dopo una lunga fase di incertezza, spesso segnata dalla disintermediazione, i sindacati hanno riportato in campo l’idea del ‘ sindacato soggetto politico’. Dal momento che loro ruolo nell’arena politica era diventato più labile e sfuggente nel corso degli anni hanno dovuto fare ricorso alla protesta per rilanciare la loro legittimazione in questa sfera.
Colpiscono la sorpresa e lo scandalo di alcuni commenti, i quali scoprono con orrore come tale sciopero sia stato uno sciopero ‘politico’. Infatti gli scioperi generali, non solo nella tradizione italiana, sono per loro natura squisitamente scioperi politici perché individuano come bersaglio obbligato le politiche pubbliche e l’azione dei governi. E lo sciopero di cui parliamo non si discosta da questo solco abituale, visto che esso investiva l’impostazione stessa della legge di bilancio.
Lo sconcerto – reale o fittizio che sia – è però legato ad un aspetto. Gli scioperi così caratterizzati dovrebbero criticare un governo ostile in funzione di una politica e di un governo più ‘ amichevole’. Gli scioperi inglesi degli anni ottanta erano scioperi contro un governo, quello della Thatcher, dichiaratamente nemico (anti-union). Come lo erano stati gli scioperi, unitari prima nel 1995, e poi della sola Cgil nel 2002-03 contro i governi Berlusconi. Diverso è il caso attuale, in quanto l’attuale governo di coalizione non si connota come ‘amico’, ma non è neppure ‘nemico’, e il suo premier tecnico è stato in certa misura considerato super partes e risparmiato dalle stesse critiche sindacali. Piuttosto l’anomalia, rispetto ai casi di scuola del passato, è che in questa occasione non si rintracci nessun partito davvero ‘amico’ dei sindacati.
Ma qui incontriamo appunto una novità, che è stata registrata in alcune analisi. La messa in discussione e sotto accusa da parte dei sindacati di tutte le forze politiche. Una contrapposizione inedita e tagliata con nettezza tra i sindacati – almeno quelli proclamanti -, vicini alle istanze della parte più debole della società (i redditi bassi) e l’intero sistema politico, considerato nel suo insieme lontano dal farsi carico del nodo della riduzione delle disuguaglianze.
Qualche analogia la si può rintracciare, come ricordato, nello scontro, animato all’inizio secolo, dalla Cgil di Cofferati nei confronti del governo Berlusconi, ma che allo stesso tempo metteva sotto accusa anche le leadership del centro-sinistra di quell’epoca considerate troppo moderate e acquiescenti.
In questo caso assistiamo però a qualcosa in più. Alla contrapposizione tra un ‘noi’, il lavoro organizzato, e un ‘loro’, composto dalla classe politica, messa tutta più o meno sullo stesso piano. Una chiave di lettura che richiama gli schemi concettuali adottati negli ultimi anni in diversi paesi europei dalle costellazioni politiche che si usa definire come ‘neo-populiste’.
Così pure è risonata, tornando di attualità, la formula coniata da Claudio Sabattini dell‘ ‘indipendenza’ del sindacato dalla politica. Questa discontinuità, più o meno esplicitata, rispetto al concetto di ‘autonomia’, tradizionalmente adottato dalle nostre Confederazioni, non appare né casuale né priva di fondamento.
L’autonomia presupponeva una dialettica ed una interlocuzione con i partiti politici, che poteva farsi molto intensa con quelli di estrazione laburista (come è stato da noi con il Pci, il Psi, e la stessa Democrazia cristiana) al punto che i sindacati consideravano utile preservare il proprio spazio e cercare di limitarne l’intervento.
Viceversa parlare di indipendenza richiama il deficit, se non la assenza, di questa interlocuzione. Cosa che fa emergere un ‘evidente critica verso la dissolvenza di quel rapporto tra ‘fratelli siamesi’ (come lo ha definito il politologo Liborio Mattina) che ha caratterizzato storicamente in tanti paesi le relazioni tra partiti ‘amici’, generalmente di sinistra, e organizzazioni sindacali.
In questo modo viene messo il dito nella piaga della politica, che non si occupa (almeno non abbastanza) di lavoro e dei bisogni dei lavoratori: una politica considerata globalmente insoddisfacente, inclusi i partiti di centro-sinistra (in passato considerati pro-labor).
Una rappresentazione, la quale, al di là di alcuni aspetti – come la retorica neo-populista – appare dotata di numerosi agganci nella pratica e nei comportamenti della politica attuale.
Intanto in primo luogo emergono agganci molto solidi con una realtà sociale segnata da tante insoddisfazioni e da una profonda insicurezza. Gli indici per misurare l’insicurezza sociale ed economica – come quello elaborato insieme a Fabrizio Pirro – ci forniscono dati preoccupanti relativi alla persistenza e all’estensione del disagio tra i lavoratori, tanto dipendenti che autonomi. Secondo questi indici solo un lavoratore su sei si sente pienamente sicuro a fronte di una pervasiva vulnerabilità sociale.
Ma accanto a questa rappresentazione ne troviamo un’altra – che prevale sui principali media – di tutt’altro tenore che ci racconta un paese dinamico e che si sta ritrovando sotto la guida esperta di una sorta di demiurgo (Draghi).
Il punto è che queste due narrazioni – un disagio crescente e un paese che si sta raddrizzando – contengono entrambe elementi di verità, dal momento che al dinamismo ritornante nella sfera economica si accompagnano dosi di crescente disuguaglianza nella sfera sociale, per giunta percepite sempre più come inique e non tollerabili.
In realtà il dato nuovo che si staglia consiste nell’indifferenza e nella distanza del ceto politico – anche quello di ‘sinistra’ – dal lavoro in difficoltà e impoverito. Sembrano due mondi non comunicanti. Come ha notato Nadia Urbinati lo stupore del Pd davanti allo sciopero ha rivelato “una frattura reale tra chi fa politica professionalmente e chi fa il cittadino lavoratore professionalmente”. Una frattura dovuta principalmente – secondo questa opinione – al fatto che il partito è diventato “come un ufficio di collocamento per chi vuol fare politica istituzionale’.
Questo scenario coincide insomma con quello, che da tempo ci viene descritto dagli scienziati politici, di una dominanza tra i partiti – non più di massa- della logica del ‘partito cartello ’, del tutto indifferente alla partecipazione e non interessato a rappresentare il dissenso o segmenti sociali precisi, come quelli dei lavoratori.
Inoltre tale scenario sembra dare ragione a chi – come lo studioso francese Bruno Amable – ha parlato dell’ascesa di un ‘blocco borghese’, che pone ai margini i lavoratori esecutivi e con bassi redditi: un’ascesa che si rivela a suo avviso fragile e illusoria.
Colpisce comunque questa impermeabilità – assoluta o relativa che sia -, in quanto essa contribuisce a modificare in profondità gli scenari plausibili nei rapporti tra sindacati e partiti (potenzialmente amici).
Il conflitto tra D’Alema e Cofferati iniziato nel 1997 e continuato negli anni successivi era una sorta di ‘lite in famiglia’, come pure era stato scritto. Eppure questo duello implicava una sfida rivolta dal partito al sindacato nella rappresentanza del lavoro sulla base di un proprio progetto che mirava esplicitamente ad includerli (e che esso riteneva sovraordinato rispetto alle linee dell’azione sindacale).
La distanza tra i due attori è stata amplificata in modo vistoso nel periodo renziano. In questo caso la proposta avanzata dal partito (e dal governo) consisteva nell’assunzione in proprio della rappresentanza del lavoro e dei lavoratori, andando oltre la mediazione e il ruolo dei sindacati, considerati inadeguati e superflui. Quindi anche in quel caso la rappresentanza del lavoro non veniva superata ma veniva inserita in un percorso diverso e centrato sulla leadership di governo.
Ma ora ci troviamo di fronte ad un ulteriore slittamento. Infatti l’ultimo atto, per il momento, di questa storia è quello del recente sciopero generale. Che ha sigillato un ulteriore step del posizionamento del partito, il Partito democratico, rivelatosi progressivamente indifferente verso la rappresentanza politica del lavoro: in particolare mostrandosi poco sensibile verso il tema – sollevato dai sindacati – della tutela dei redditi più bassi e dei lavoratori manuali, che sono appunto quelli che si collocano ai margini del ‘blocco borghese’.
Come e perché ha preso piede questo processo di separazione (forse un vero e proprio divorzio)?
Una spiegazione più generale la si trova in una riflessione recente di Leonardo Morlino, uno dei più illustri scienziati politici italiani, che ricorda sull’Huffington Post, come in generale in molte democrazie liberali europee l’associazione tra partiti di sinistra e battaglie per l’uguaglianza si sia fatta più debole nel corso del tempo, e sorprendentemente dopo lo scoppio delle insicurezze sociali indotte dalla ‘grande recessione’ (quindi nel periodo successivo al 2008). E che dunque di fronte a questo quadro nel caso italiano Cgil e Uil “si pongono come gli attori politici che si sostituiscono ai partiti issando la bandiera dell’uguaglianza, la cui domanda è aumentata in Europa.”.
Nella realtà italiana – non dissimile però da altri paesi – possiamo ritenere che questo abbandono o questa marginalizzazione del grande obiettivo dell’eguaglianza assuma anche risvolti autolesionistici. Come ricorderanno i bene informati, questo orientamento è stato esplicitato per la prima volta in modo organico dalla introduzione di Renzi alla nuova edizione (del 2014) di “Destra e Sinistra” di Bobbio: nella quale veniva appunto dichiarato che la tensione verso l’uguaglianza (che non spariva) era divenuta meno pressante rispetto all’istanza dell’innovazione che invece diventava prioritaria.
In questa ottica possiamo ritenere che se con le elezioni del 2018 il Pd è precipitato allo status del più grande dei piccoli partiti, con il 18% dei voti, questo si deve al fatto che, con qualche intenzionalità e diverse colpe, esso si è impigliato nel ‘voto di classe rovesciato’ (secondo la definizione di Lorenzo De Sio). È cioè diventato elettoralmente il partito con la più spiccata correlazione sociale con i ceti medi e alti, essendo stato nel frattempo abbandonato da larga parte dell’elettorato popolare (ma questo trend investe tutta l’area di centro-sinistra). Cosa che ci aiuta a mettere a fuoco l’effetto di chiusura all’interno – come si dice – delle ZTL, cioè nell’ambito dei gruppi sociali che prevalgono all’interno delle zone centrali delle medie e grandi città.
Anche nel caso del Pd, oltre al ricordato passaggio di Renzi, esistono ragioni di lungo periodo che aiutano a capire l’affermazione progressiva di questa tendenza. Infatti, fin dal suo atto fondativo, il Partito Democratico ha esplicitamente rinunciato ad ogni specifica radice di classe e laburista in nome di un discorso iper-generalista: tipico appunto dei ‘partiti cartello ’. Insomma il Pd – ma ribadiamo: non da solo in Europa – è diventato una specie di caso da manuale di questa deriva, che conduce al distanziamento dai lavoratori più deboli sia economicamente che culturalmente.
Nell’ultimo scorcio un’altra strada avrebbe potuto essere esplorata, ed era quella di spingere in direzione di un nuovo patto sociale che includesse i sindacati e l’insieme delle parti sociali. E ai suoi esordi l’attuale segretario Letta aveva effettivamente evocato la concertazione secondo il metodo Ciampi come una opzione virtuosa e da perseguire. Ma questa questione non è diventata certamente un perno della sua agenda politica, restando per ora al livello di mero ballon d’essai.
Su queste colonne abbiamo ricordato altre volte come sia diventato chiaro – nelle esperienze europee- che la costruzione di accordi tra soggetti pubblici e parti sociali dipenda in primo luogo dalla volontà dei governi, che detengono nelle loro mani larga parte delle leve che possono favorire, o meno, l’approdo ad esiti condivisi. Ma questa analisi andrebbe integrata con la considerazione che una parte di questo gioco risiede anche nelle mani dei partiti. In altri termini se non si affaccia un partito pro-labor, che si candida e impegna attivamente per favorire questo esito, risulta difficile immaginare che esso possa davvero realizzarsi. Come in effetti sta accadendo con la gestione del PNRR nel nostro paese. Di conseguenza lo stesso Landini ha rilevato come la logica messa in campo fin qui dal governo porta i sindacati ad essere trattati alla stregua di ‘osservatori’, privi di qualunque incidenza decisionale.
Insomma se il quadro che abbiamo descritto è verosimile, allora possiamo comprendere per quale motivo i sindacati (o almeno una parte significativa di essi) ritengano necessario autorappresentarsi nella rappresentanza del lavoro – scusate il bisticcio – se vogliono aspirare ad un qualche protagonismo politico.
Restano però diversi dubbi che questa situazione, sicuramente sghemba, possa essere affrontata efficacemente attraverso il ricorso all’autosufficienza sindacale.
Sappiamo bene come sia difficile definire, e soprattutto realizzare, una immediata traslazione politica, tale da offrire una proiezione elettorale all’incardina mento che i sindacati vantano tra i lavoratori. Esperienze precedenti, non solo italiane, inducono a qualche scetticismo in materia. Anche se va detto che l’attuale relativa liquidità di larga parte dei sistemi politici europei porta a non escludere del tutto il successo di operazioni analoghe, un tempo inimmaginabili, e che hanno registrato una qualche consistenza pratica solo nel continente latino-americano.
Di fronte a questa accresciuta – ma non accettabile – divaricazione la strada maestra dovrebbe consistere piuttosto nel ri-innescare una qualche forma di cooperazione fruttuosa tra sindacati e partiti. Avendo chiaro che sono ormai saltati gli ancoraggi identitari su cui si fondavano in passato i legami molto stretti, e che facevano parlare di un campo comune che abbracciava entrambi gli attori. Ognuno di essi dovrebbe provare a mettere in campo delle proprie mosse di riavvicinamento per uscire dal guscio in cui altrimenti è condannato.
Il quadro di riferimento spinge verso una laicizzazione dei comportamenti, che sfida però la ricerca di forme di condivisione inedite tra soggetti che almeno in parte hanno interessi sovrapposti. E che dovrebbero ragionare insieme su come costruire un’alleanza tra la parte più cosmopolita e aperta della società, i ceti medi urbani, e la parte più debole del mondo del lavoro, insicura e che si sente minacciata dal rigorismo economico degli ultimi dieci anni. Un’alleanza tra diritti civili e diritti sociali non così semplice da delineare, come si vede, e neppure scontata nelle sue implicazioni. Questa frattura esiste in quasi tutti i paesi occidentali e aiuta a spiegare il carattere minoritario assunto dalla sinistra riformista e insieme le difficoltà dei sindacati.
Questo riavvicinamento pragmatico, probabilmente necessario, va immaginato possa allo stato svilupparsi in primo luogo su basi programmatiche. Intorno ad un programma comune da condividere per un tratto di strada, o intorno ad alcune priorità di programma (possibilmente di respiro e di legislatura) avanzate da ciascuno dei soggetti in campo e sulle quali trovare una sintonia tale da dare vita ad un percorso con significative reciprocità.
Questo passaggio appare inevitabile se si considera del tutto insoddisfacente, e non accettabile, lo scenario, che oggi si vede sullo sfondo, di mera polarizzazione tra il sindacato ‘indipendente’ e il partito ‘autoreferenziale’.
Mimmi Carrieri