Li chiamano “obroni wawu”, che nel gergo locale significa “abiti degli uomini bianchi morti”. Sono i capi d’abbigliamento usati che il Ghana importa soprattutto da Regno Unito, Canada e Cina. I vestiti di seconda mano vengono offerti a prezzi modesti nel mercato di Kantamanto che si estende su un’area di 20 ettari. Il grande bazar è diventato un’attrattiva per i turisti stranieri tanto che i tour operator l’hanno inserito nelle visite guidate.
Ogni settimana arrivano balle di indumenti, vendute tra i 25 e i 500 dollari l’una. Fin qui non ci sarebbe niente di male, anche se appare subito evidente che l’unico guadagno certo finisce nelle tasche dei commercianti internazionali che inondano di articoli dismessi il Paese africano. Ma il profitto non conosce limiti e così invece di capi che consentano un corretto riciclo, cotone, lino, lana, arrivano gli scarti del “fast fashion”, che per sua stessa definizione sforna prodotti destinati ad un brevissimo ciclo di vita.
Morale della storia: buona parte di questa robaccia finisce al macero. Ma non avendo il Ghana un sistema di smaltimento (qui a Roma non possiamo certo fare prediche…) i rifiuti tessili vengono bruciati in colossali roghi o gettati qua e là. L’inquinamento atmosferico e ambientale fa paura. In molte aree delle spiagge di Accra la sabbia non è visibile, sommersa dagli scampoli “usa e getta”. E il mare è una discarica sempre a disposizione. Le reti dei pescatori raccolgono più magliette e jeans che pesci.
Eppure, il traffico di “obroni wawu” continua, rendendo circa 214 milioni di dollari al mese. Con costi irrisori: i lavoratori ghanesi, moderni schiavi, vengono costretti a lavare, tingere, rammendare e stirare gli abiti usati. E al facchinaggio sono addetti donne e bambini: trasportano montagne di imballaggi che pesano tra i 50 e i 100 chili, ricevendo una paga giornaliera che non basta a comprare un litro di latte.
“L’altra faccia della moda”, ha titolato l’Osservatore Romano pubblicando la minuziosa e sdegnata cronaca di Isabella Piro. Uno dei numerosi articoli che il quotidiano della Santa Sede dedica, solitario ma indomito, all’Africa negletta. C’è il Ghana sommerso dagli scarti dei nostri armadi e ci sono le tante nazioni sconvolte dalle guerre civili, innescate e alimentate dagli interessi delle multinazionali e delle potenze straniere. All’inizio fanno un po’ di notizia, ma poi ci si dimentica di esse, l’Ucraina e Gaza bastano e avanzano per tenere desta la tiepida coscienza dell’Occidente.
Nel Sudan, dopo quasi dieci mesi dei sanguinosi scontri provocati dalla rivalità tra i generali Abdel Fattah al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, si contano dodicimila morti e oltre dieci milioni di profughi. Diciotto milioni le persone che soffrono di fame acuta. Mancano acqua ed elettricità. Il colera imperversa, l’assistenza sanitaria è quasi impossibile.
Le testimonianze parlano di atrocità, violenze su base tribale e religiosa, stupri, violazioni dei più elementari diritti. Un tragico caos, al momento senza una via d’uscita. Nei primi anni duemila, un analogo conflitto interno portò a trecentomila uccisioni e ad una catastrofe generazionale, con il più grande esodo di bambini al mondo. E ora ci si sta avviando a raggiungere questo terribile record.
Solo a El Genina, la “pulizia etnica” ha mietuto più vittime di quelle provocate dal massacro di Srebrenica del 1995, da noi ricordato, rimarca Giulio Albanese, “come il peggiore omicidio di massa avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale”.
In Kenya, il popolo Ogiek viene spinto con la forza a fuggire dalla foresta Mau, la più grande entità fluviale montana dell’Africa Orientale. Il legname e il carbonio fanno gola a investitori senza scrupoli, i quali, con l’interessata complicità dello stesso governo di Nairobi, ricorrono ad ogni mezzo per avere mano libera. Interi villaggi vengono bruciati per seminare il terrore tra gli indigeni, che rappresentano l’unico ostacolo all’avidità.
Che altro? Mercanti di abiti usati, venditori di armi, trafficanti di esseri umani, sfruttatori di ricchezze naturali e minerarie, mercenari, consiglieri occulti. È vero, gli africani li stiamo aiutando a casa loro.
Marco Cianca