Si vorrebbe far credere che siamo fermi come sindacato al Novecento, magari quello dei Valletta e dei Costa. Quando appare chiaro che il percorso da rafforzare con le intese ai tavoli dei negoziati è quello ispirato alla partecipazione ed alla innovazione.
Ma l’azione rivendicativa di questi mesi deve anche fare chiarezza su alcuni nodi irrisolti e che riguardano direttamente il comportamento della Confindustria. In primo luogo non è possibile aggiungere alle difficoltà economiche tattiche dilatorie nel voler rinnovare contratti talvolta scaduti da anni come nel caso della sanità privata. In questo caso sono gli imprenditori a stare con tutti e due i piedi nel Novecento dell’arrocco contrattuale. Le relazioni industriali oggi non possono non assumere anche il compito di mantenere la coesione sociale in grado di reggere alle troppe incertezze che gravano sul lavoro.
Ma gli imprenditori devono anche decidersi ad uscire da una contraddizione che in questo momento il Paese non può permettersi: si oppongono ad una logica assistenzialista, ma al tempo stesso sul piano salariale mostrano chiusure che si scontrano con l’evidenza: per far ripartire i consumi occorrono coerenti scelte di politica salariale. Certamente le parti sociali devono incalzare il governo sugli incentivi fiscali, ma questa è la volta nella quale con gradualità si deve uscire dalla stagione delle basse retribuzioni che come si è visto, anche prima del Covid, erano diventate una componente deflazionistica. Ma sappiamo bene. Osservando la realtà, che il ritorno ad una ripresa economica reale passa inevitabilmente, vista la attuale pandemia, soprattutto attraverso le dinamiche del mercato interno.
L’importanza dei contratti inoltre sta nel fatto che bisogna impedire nel prossimo futuro che il lavoro nero ed irregolare dilaghi con l’allargamento della giungla contrattuale all’interno dei luoghi di lavoro. Su questo punto le timidezze imprenditoriali devono finire. Perché questo è uno dei modi brevettati per rinnegare una moderna visione della contrattazione.
Naturalmente ci si deve domandare come reagire di fronte alla necessità di maggiore produttività del nostro sistema economico, una delle questione che ci trasciniamo da lungo tempo appresso.
Anche in questo caso appare fondamentale una svolta nel mondo imprenditoriale: le risorse che vengono indirizzate alle imprese non possono ancora una volta avere l’unico scopo di rafforzare i patrimoni e trasformarsi in finanza. A questa Italia che vuole sfuggire al declino ed a più gravi problemi sociali occorrono forti investimenti, ma non solo pubblici, anche privati. Ed in questo campo la linea confindustriale è deficitaria e non da oggi. Investimenti mirati, frutto di un confronto fra imprese e sindacati sulle prospettive e sulle opportunità di innovazione presenti. Quelle risorse poi non possono essere, come è avvenuto in passato, facile conquista di qualche lobbie, bensì lo strumento per modernizzare l’attività economica come pure quella negoziale.
In questi giorni uno studio dedicato al futuro economico del Giappone, mostra come nel 2050 questo Paese potrebbe essere ancora al di sotto, e non di poco, del Pil del 2019. Malgrado la Banca centrale giapponese abbia provveduto per prima a quella iniezione poderosa di liquidità che poi è diventata la scelta di fondo della Fed e della Bce.
E’ una eventualità che se si affacciasse nel nostro Paese sarebbe davvero inquietante anche per le inevitabili ricadute sul nostro ruolo nell’Unione europea. La questione da affrontare è di quelle che segnano il destino di una società: come ridare centralità all’economia reale in un mondo nel quale la finanza e pochi giganti multinazionali dettano legge, in un mondo nel quale le tensioni nelle relazioni internazionali impediscono di avere a disposizione periodi abbastanza lunghi per progettare il futuro della propria economia in relativa tranquillità. Anche se ci sembrano lontani questi squilibri pesano sulle nostre scelte.
Ecco perché sarebbe importante che le imprese comprendessero che la contrattazione non è più un periodico braccio di ferro fra le parti, ma può assumere significati diversi, più vicini alle esigenze di rimettere in piedi la nostra economia ferita ed impedire che il solco delle diseguaglianze, sempre in agguato, si approfondisca.
Ovviamente il Governo e la politica economica devono fare la loro parte, che non è quella di affidarsi “fideisticamente” a talismani come il Recovery fund, certamente prezioso ma se lo si userà per obiettivi di lungo periodo, nella sanità come nella transizione energetica, nella innovazione tecnologica come nella formazione. Progetti e non astute liste della spesa. Ma questa riva dell’impegno dei prossimi anni va raggiunta superando i flutti tempestosi della emergenza nella quale siamo ancora immersi. Restituire un clima di collaborazione nei rapporti contrattuali fra le parti sociali che salvi la dignità del lavoro e la sua sicurezza può essere un buon contributo in questa direzione. Ma per agire in questo senso sarà determinante mettere al primo posto gli interessi generali del nostro assetto economico e sociale.