Giuseppe Roma, architetto, 30 anni di Censis alle spalle, fondatore e segretario generale della Rete urbana delle rappresentanze, non è ottimista sul futuro della coesione sociale nel nostro paese. Questa, afferma, c’è se esiste benessere economico, ma la crisi da Covid è stata molto forte e ci ha aggredito quando eravamo ancora deboli ed esposti. Quindi non potrà che andare peggio, dato che la torta è più piccola di prima. Ma a suo avviso manca nel nostro paese anche quella comunanza di valori che avvicina le persone e le fa vivere meglio. Non è un caso, aggiunge, se al centro dei nostri quartieri non c’è più la scuola ma i centri commerciali.
Roma, è in pericolo la coesione sociale nel nostro paese?
La coesione sociale è fondamentalmente lo stato di una società che riesce a contemperare le esigenze dei diversi attori sociali. Si ha coesione sociale quando chi non gode delle migliori condizioni ha la possibilità di essere aiutato dal resto della società. Il grado di coesione sociale dipende in primo luogo dalla situazione economica generale, se ci sono sufficienti risorse, se l’occupazione non è a rischio.
Non è proprio la nostra condizione.
No, noi oggi siamo in una situazione opposta. Abbiamo avuto uno shock economico senza eguali dal dopoguerra e le conseguenze sulla coesione sociale saranno pesanti. Non tanto in termini quantitativi, quanto perché questa non è stata una crisi simmetrica, non ha colpito tutti nella stessa misura sotto il profilo dell’occupazione e della redditività aziendale. Ci saranno vincitori e perdenti. E purtroppo i perdenti saranno più numerosi.
Le risorse messe in campo per alleviare le condizioni generali però sono tante.
Sì, ma riusciranno a tamponare l’emergenza per qualche mese, mentre questa è una crisi strutturale, che durerà molto più dei mesi che riusciremo a coprire con la cassa integrazione, i bonus e gli altri strumenti messi in campo. Il punto è che siamo di fronte a uno stravolgimento del mercato mondiale. Basta pensare a quanto è accaduto a quel complesso di attività che chiamiamo turismo, ma che va molto al di là dell’industria delle vacanze. Mi riferisco alle fiere, ai congressi, alla mobilità propria delle grandi città.
Una realtà che sembra collassare.
Nel 2019 quasi un miliardo e mezzo di persone si sono spostate da un paese all’altro portando, appunto, da un paese all’altro ricchezza. Bene, le previsioni più rosee affermano che quest’anno i turisti internazionali saranno meno di 500 milioni, torneremo indietro di vent’anni. In Italia salteranno decine di migliaia di posti di lavoro, per di più molto spesso non coperti da garanzie di carattere sindacali, penso agli stagionali, ai precari. Cosa succederà a queste persone che hanno difficoltà di accesso agli ammortizzatori sociali? Questo provocherà disgregazione sociale, non coesione.
E saranno i più deboli a soffrire di più.
Ci sarà un aumento delle disuguaglianze, perché chi ha un reddito da lavoro dipendente avrà una condizione di favore, ma soprattutto ci sarà una riallocazione completa nel corpo sociale. Magari i fattorini della logistica riusciranno ad avere un contratto di lavoro perché il commercio elettronico è molto cresciuto. Ma troppi altri staranno peggio di prima. Il calcolo tra chi starà meglio e chi invece vedrà peggiorare la propria condizione sarà certamente negativo, saranno di più quelli che perderanno rispetto a quelli che vinceranno. Ma la coesione sociale non si può basare solo sulla solidarietà, deve trovare una base forte su una condizione strutturale di benessere diffuso. Non basta l’aiuto al disoccupato, non deve esserci il disoccupato.
Quindi avremo più disuguaglianze?
Non è un problema solo di disuguaglianza, ma di quantità. I numeri parlano chiaro. Nel 2019 la popolazione era aumentata di qualche milione di persone rispetto al 2008 e non avevamo ancora recuperato la perdita di Pil, mancava ancora circa un 4%. Adesso arriva questa altra botta, che porterà giù il Pil di quasi un altro 10%. Se la torta diminuisce, mantenere la coesione sociale è sempre più difficile. Si possono fare debiti, che poi pagheranno i nostri figli, ma alla lunga non regge, c’è un limite all’indebitamento.
E allora dobbiamo rassegnarci?
Dobbiamo trovare il modo di tornare a crescere e a far crescere l’occupazione. Recuperare il volume di attività perso è l’unica maniera per mantenere la coesione sociale in maniera strutturale. Se si riesce ad aumentare la ricchezza prodotta e a distribuirla in maniera equa, bene, altrimenti, pur mettendo tutti i possibili correttivi, non ce la si fa. Durante l’ultima crisi la regione che ha retto meglio è stata l’Emilia Romagna. Ha puntato sull’innovazione, la ricerca e la produzione ed è riuscita per questa via a dare lavoro ai giovani, nei mesi scorsi era la regione che aveva i tassi di disoccupazione più bassi. Noi questo dovremmo tornare a fare, è un’illusione pensare che possiamo sostenere la coesione sociale solo mantenendo la domanda debole. Deve crescere in maniera armonica il benessere sociale diffuso.
Non c’è però solo l’economia.
No, c’è da tener presente che la coesione sociale è anche spirito di comunità. Il rapporto tra le persone, l’attenzione alla persona, all’attività della persona, aspetti come la legalità, l’ambiente, la convivenza civile, questi contribuiscono a creare coesione sociale. Se sporchi per strada lo fai perché non ti interessa nulla degli altri, se getti della roba dalla finestra vuol dire che sei in una comunità non coesa, che non ha identità sua propria, che è intollerante, che non rispetta le diversità.
Questo aspetto è ancora più difficile da correggere.
Certo, c’è un lungo lavoro da fare, partendo dal fatto che la formazione del cittadino viene dalla scuola, ma anche dalla famiglia e da tutte le altre agenzie formative informali, che creano coscienza in modo informale, come i social media. Per i quali oggi bisogna avere grande interesse perché l’educazione del cittadino viene anche da lì. Questa coesione è impalpabile, perché non è solo rispetto delle regole, ma è anche il piacere di appartenere a un sistema di valori che mette al centro la persona. Per averla occorre avere una comunanza di valori. Non è facile raggiungerla.
Lei pensa che possiamo recuperare o stiamo scivolando in basso?
La consapevolezza del proprio essere, che è indispensabile, nasce dall’insegnamento, dall’educazione dei cittadini, E’ una sfida decisiva, ma io la vedo debole, non è condivisa. Basta pensare a quanto poco conti la scuola nella società, al fatto che i nostri quartieri non hanno più al loro centro la scuola, come dovrebbe essere, ma i centri commerciali. Dovremmo fare il percorso inverso, rimettere al centro la scuola, che è il motore fondamentale dello sviluppo.
Massimo Mascini