La Cgil non diventa un partito politico. Ma guarda con attenzione e partecipazione a una riorganizzazione del campo progressista perché si ritiene parte di una cultura di sinistra. Il compito che attende tutti però, e specialmente la sinistra, è quella di riportare alle urne i 18 milioni di italiani che a settembre non hanno votato perché pensano che la politica non sia utile. Alessandro Genovesi, segretario generale degli Edili della Cgil, pensa che la sua confederazione si sia rafforzata al congresso, anche perché con la Meloni c’è stato un reciproco riconoscimento e la riaffermazione che le due parti sono portatrici di programmi alternativi. Il sindacato adesso porterà avanti un confronto serrato con il governo, rafforzato dalla disponibilità della Cisl a marciare assieme alle altre confederazioni, quanto meno in una campagna di assemblee in fabbrica. Ma il vero problema che attende tutti è la profonda riorganizzazione dell’apparato produttivo che dovrà essere realizzato nei prossimi anni, un compito ingente al quale tutti dovranno partecipare. Compresa la Confindustria, grande assente dalla politica di questi anni.
Genovesi, la Cgil con il suo congresso è diventata un partito politico?
No, assolutamente no. La Cgil al suo congresso ha ospitato un confronto franco e anche metodologicamente corretto con tutte le forze dell’opposizione. In questo confronto Elly Schlein, la nuova segretaria del Pd, ha proposto a tutti un ragionamento che partendo da posizioni anche diverse conducesse a un punto di incontro. Conte e Fratoianni hanno accettato questo percorso, Calenda no, perché a suo avviso ci sono tante cose che li dividono, ma si è detto disponibile a identificare 7-8 punti su cui lavorare assieme.
Questo i partiti, ma la Cgil?
La Cgil ha valutato positivamente questo percorso perché la crisi della sinistra progressista è comunque una cosa che la riguarda, come del resto è stato poi scritto nel documento congressuale conclusivo. La Cgil, pur nella sua autonomia, si sente sostenitrice di una riorganizzazione del campo progressista con al centro lavoro e ambiente. Io condivido questa impostazione perché, anche senza diventare un partito, la Cgil fa parte di una cultura politica, quella di sinistra, e ha interesse che la politica a sinistra si organizzi, perché il tema di fondo è come riportiamo al voto quel 60% di italiani che non ha votato e che sono il popolo nostro, le borgate, gli operai, i pensionati al minimo.
Ma questo è compito dei partiti o del sindacato?
Riportare quelle persone alle urne è compito dei partiti, ma è nostro impegno affrontare la crisi democratica, di cui la non partecipazione al voto è un epifenomeno. Quella crisi è il frutto dell’aumento delle diseguaglianze e combattere le diseguaglianze è compito di tutti, anche del sindacato. E se riattivi la democrazia probabilmente riattivi anche la partecipazione al voto e offri ai partiti un programma.
Quindi anche il sindacato deve lavorare per riportare gli italiani al voto.
Il problema del sindacato non è che la destra abbia raccolto 12 milioni di voti, sono dieci anni che raggiunge la stessa cifra. E non è nemmeno i 16 milioni di italiani che non hanno votato a destra, ma non sono stati in grado di coalizzarsi e hanno perso. Il problema, di tutti, sono i 18 milioni di italiani che pensano che la politica, che la partecipazione al voto non sia utile e lasciano decidere gli altri, e magari domani lo pensano anche per l’iniziativa del sindacato.
Quindi la Cgil non si sostituisce ai partiti?
Non lo fa perché la questione democratica è un problema di tutti, delle istituzioni, dei partiti, del sindacato. E quindi se il sindacato aiuta attraverso i propri programmi la costruzione di un’agenda politica che parta dalle diseguaglianze sociali e ambientali fa una cosa buona per il paese, per la sinistra e per gli interessi che rappresenta.
Al congresso la Cgil si è rafforzata?
C’è stato un riconoscimento reciproco tra due proposte politiche alternative. Meloni propone la rendita, la riduzione delle tasse, quindi anche del welfare, noi proponiamo un modello alternativo. Un riconoscimento reciproco perché Meloni riconosce alla Cgil di essere il più grande sindacato italiano, noi riconosciamo che lei è il presidente del Consiglio dei ministri, ma con un programma molto distante dal nostro. Respingiamo tutto quello che ha fatto e sta facendo. Oltre alla riforma fiscale, per rimanere nel mio settore, il codice degli appalti o l’aver impedito ai poveri la cessione dei crediti.
Intanto il sindacato ritrova una sua unità e così si rafforza.
La disponibilità della Cisl ad avviare un discorso comune di contrapposizione al governo è una grande novità. Questo probabilmente non porterà a un percorso coincidente delle diverse confederazioni, la Cisl continuerà per esempio a raccogliere firme per un progetto di iniziativa legislativa sui temi della partecipazione, la Cgil si muoverà su altre cose. Ma è importante che la Cisl non metta veti alla Cgil e la Cgil faccia altrettanto con la Cisl. Così possiamo trovare punti di azione comune, per esempio su un patto fiscale, che è importante perché sarebbe un vero patto di cittadinanza.
Questa mobilitazione servirà a chiarire le idee ai lavoratori.
Sarà importante andare tutti assieme a spiegare alla nostra base cosa c’è dietro la riforma fiscale, come si affronta la questione dei contratti. Una serie di assemblee con una manifestazione nazionale, magari di sabato, non è il massimo, si poteva tentare qualcosa di più forte, ma è importante fare un pezzo di strada tutti assieme. Poi vedremo quale è la risposta del governo, se tira dritto valuteremo come proseguire, senza escludere nulla.
La Cgil al congresso ha avviato un processo di rimodulazione dei propri assetti. Cosa cambierà?
Una forte dialettica tra le istanze confederali e le categorie c’è sempre stata e non può essere banalizzata, anche perché la confederalità non è un luogo fisico, è una cultura politica. Io mi sento molto confederale quando tratto la rigenerazione urbana o il codice degli appalti perché pongo il tema di come il lavoro edile contribuisca a un modello di città, di sviluppo ambientalmente sostenibile. Ma il punto vero è che noi, tutti assieme, confederazioni e categorie, Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, abbiamo 3 o 4 anni di tempo per attuare una grande trasformazione dell’apparato produttivo italiano alla luce delle trasformazioni già avvenute in termini tecnologici.
Non c’è alternativa?
il nostro è un pianeta malato, gli interventi non sono procrastinabili. Nei prossimi anni 4 milioni di lavoratori, pur restando nella stessa azienda, dovranno imparare a fare altro. E altri 3 milioni di lavoratori dovranno cambiare lavoro. Questi lavoratori vanno accompagnati, aiutati, servirà una grande ondata di formazione, come non è mai avvenuta. Tutti i soggetti devono impegnarsi.
Confindustria sarà in grado di svolgere la sua parte?
Confindustria è la grande assente di questi anni. Ci siamo tanto esercitati sulla crisi di rappresentanza del sindacato, non vorrei che quella delle organizzazioni imprenditoriali sia ancora più grave. Più che a Carlo Bonomi io chiederei alle imprese, quelle che girano il mondo e sanno dove si va a parare, come pensano di poter affrontare quell’immenso processo di ristrutturazione produttiva che ci attende. Abbiamo sempre rincorso un grande accordo interconfederale che introducesse le novità perché poi fossero le categorie a tradurle in atti concreti, forse è il momento di scegliere un approccio differente, dando ampio spazio alla contrattazione di secondo livello. Non solo in azienda, anche al livello territoriale.
Massimo Mascini